Ahmed Ben Bella
(25 dicembre 1918 – 11 aprile 2012)
Le due morti e i molti passaggi di una lunghissima vita: il primo capo dell’Algeria indipendente aveva 95 anni, terminati – così era stato diffuso – il 23 febbraio scorso. In realtà era ancora al mondo, come la sua famiglia avrebbe poi confermato. Negli anni Cinquanta, i francesi avevano provato a farlo fuori diverse volte, con la tecnica dell’attentato, e sempre senza risultato. Durante la guerra mondiale, inquadrato nei reggimenti coloniali della Francia, combatteva i tedeschi a Marsiglia e a Cassino: un buon soldato – sergente – due volte decorato, con la Croix de Guerre e con la Médaille Militaire gollista. Allo scoppio della guerra d’Algeria (1954), era già un militante di primo livello dell’Fln: socialista, rivoluzionario, «musulmano, arabo, e algerino». Con questi tre ultimi aggettivi, in ordine di priorità, si sarebbe autoritratto da vecchio.
Se si aggiunge la canonica definizione di «padre della patria» con cui è stato effigiato una volta morto, lo stemma ufficiale che lo riguarda sembra pronto per la Storia. La storia del suo paese negli ultimi vent’anni ha coinciso con la ferocia di una guerra civile, e un bilancio di circa centomila morti: per lo più vittime civili.
Le due parti di quel confronto – il regime militare derivato dall’Fln e il Fronte islamico – sono stati in realtà complementari. Gli orrori della guerriglia integralista servivano da giustificazione all’incistamento del regime laico e autoritario, senza contare le connivenze sotterranee fra gli apparati dello Stato e i militanti islamici.
Ahmed Ben Bella era rientrato nel 1990, dopo una decina d’anni d’esilio – a Losanna e in Francia – e 14 anni di arresti domiciliari. Si sarebbe sforzato in un ruolo di mediazione. Improbabile e marginale, anche se rispettato: l’ex combattente incrociava, in sé, una visione sorpassata del socialismo nazionale arabo-nordafricano, e poteva anche essere considerato uno dei responsabili all’origine della deriva dello Stato algerino e delle reazioni disastrose che avrebbe provocato.
L’Algeria appena nata (1962-63) di Ben Bella – primo ministro e presidente fino al colpo militare che lo esautorava nel 1965 – era un prodotto post-coloniale della sinistra mondiale anni Sessanta: repubblica democratica, popolare, “non allineata”, a partito unico, con un fondamentale problema di sviluppo (la riforma agraria), e una ricchezza da Paese-gioiello (petrolio e gas naturale) con cui fare affari a prescindere dall’ideologia di Stato.
Ben Bella al potere definiva lo jugoslavo Tito «un modello», il colonnello Nasser «un maestro», e Fidel Castro «un fratello». Ma non si bloccava nell’aprire alla Francia la via prioritaria dello sfruttamento petrolifero accettando da de Gaulle un primo finanziamento di 200 milioni di dollari. Firmava anche contratti relativamente equidistanti con gli Stati Uniti e Mosca. Relativamente, perché lo sbilanciamento, sentimentalmente ferreo, verso l’Urss, era nei fatti, oltre che nei detti.
In un’intervista di una trentina d’anni fa – ritrasmessa recentemente da Rai Storia – Ben Bella, in esilio a Losanna, manteneva fermi certi paletti: «l’accumulazione capitalistica» e gli americani erano il male peggiore, e il «partito unico la soluzione politica più adatta alla nuova Algeria».
Essendo stato comunque un politico particolare – dall’ideologia formalmente rigida, ma capace di analizzare le maree della Storia – si concedeva, almeno a posteriori, qualche revisione critica anche su stesso: lamentando di non aver «armato il popolo» per fronteggiare il golpe (del suo ex compagno di lotta Houari Boumedienne), e di non essere stato in grado di creare una «democrazia diffusa» (organismi di autogoverno popolare nelle comunità, nei villaggi). Dichiarava anche la propria estraneità al capitalismo di Stato sovietico. Una via algerina al socialismo – col modello centrale dell’autogestione alla jugoslava – restava la sua visione, o la sua illusione.
Quando era primo ministro, si era visto arrivare addosso una definizione, anche caratteriale, di questo tipo: «avventurista e gauchiste sfrenato». L’aveva lanciata Ferhat Abbas, un altro padre della rivolta antifrancese: ex farmacista, primo presidente provvisorio dello Stato, uomo di progetti sofisticati, fautore di una democrazia a più partiti, e in fondo francesizzante. Era un algerino d’elite che, molto prima della guerra anti-coloniale, aveva avvertito Parigi e il mondo in questi termini: «Chi sogna per il nostro futuro quello dei pellerossa, si sbaglia». Ben Bella l’avrebbe esautorato, poi fatto arrestare. Il colonnello Boumedienne l’avrebbe liberato, lasciandogli una voce critica, ma senza peso. E comunque di minoranza.
L’Algeria di oggi deve a Ben Bella e ai suoi fondatori che gli assomigliavano in una fila di caratteri – rivoluzionari e autoritari, rigidi e malleabili, e anche corruttibili e corrotti – la sua indipendenza, e quindi il suo peso nel mondo. Un peso essenzialmente capitalistico, da rendita e da mercato petrolifero. Gli deve anche i suoi limiti: ad Algeri, la memoria vicinissima dello strazio e il rigido controllo di un futuro «primaverile», danno tuttora, e per ora, man forte ai diretti eredi del «padre della patria».
Mauricio Leib Lasansky
(12 ottobre 1914 – 9 aprile 2012)
Incisore argentino – di Buenos Aires – poi cittadino americano. Definito «un mago» nella sua specialità, si è chiesto come rappresentare, in arte, l’orrore nazista, quella persecuzione e quell’annientamento. Una domanda su cui continuano a confrontarsi, anche polemicamente, artisti, storici, letterati: quanto è comunque limitata una raffigurazione di un male, o di un crimine come quello, ripetuto, mai visto, e senza margini? O anche: è possibile, e lecito, farlo? Nel dopoguerra Theodor W. Adorno aveva negato, in senso largo, quella capacità: «È impossibile poetare dopo Auschwitz». Lasansky è morto a 97 anni passati (a Iowa City), e a metà della sua vita ci ha provato. Il risultato: un’opera complessiva che rimanda, per certi versi, alle visioni di Francsco Goya. Che, anche lui, non poetava di fronte a certi orrori.
A metà degli anni Sessanta, lavorando per sei anni, soprattutto a New York, Mauricio Lasansky dava vita – l’espressione sembra un paradosso – a una serie di incisioni chiamate da lui “Nazi Drawings”: il titolo arriva diretto, secco, come un fatto che non ha bisogno di essere scoperto, ma solo visto. Con l’aggettivo “nazi” che parla subito di un’unicità di genere. Trenta immagini, e poi altre 60, più grandi, su carta e con matita – e tecniche miste, come puntasecca e acquatinta – dove sagome di nazisti in divisa, elmi, dentature, facce di bambini che soffrono l’inimmaginabile, si sovrappongono o si affiancano, o si confondono. In una delle più sconvolgenti, un uomo è appeso a testa in giù a una croce, e i piedi occupano la parte sinistra. Un’immagine fuori da ogni canone di ogni crocifissione. Come fuori da ogni modello è stato il supplizio nazista.
Nel 1967, la collezione veniva esposta al Withney Museum, e il New Yorker si faceva spiegare, in un’intervista, come Lasansky fosse riuscito, dentro di sé, a dare forma e coraggio all’impresa. Quasi descrivendo tre prove, l’artista iniziava così: «Avevo Hitler nella pancia» (Lasansky era figlio di ebrei est-europei emigrati in Argentina). Poi continuava: «Pensavo troppo a loro, alle immagini, in termini di arte. I primi tentativi erano troppo estetici». Il rischio di poetare era, così, escluso. L’ultimo passaggio coincideva con l’espressione «difficile gestazione». E veniva descritto in questo modo: «Ho pensato: ma perché non metto giù quello che provo? Poi ho pensato: il fatto è che milioni di persone sono state ammazzate. Come si può lavorare a questo con calma, o freddamente?».
Mauricio Lasansky aveva un’infinità capacità tecnica, e suo padre era già lui stesso un bravissimo incisore che, prima di trasferirsi a Buenos Aires, aveva perfezionato l’arte a Philadelphia. Lasansky figlio era anche un uomo di passioni e convinzioni: non amava per niente Perón, e dal 1940 (cioè dall’alba del peronismo) decideva di non tornare più in Argentina.
Sarebbe diventato americano, insegnando anche storia dell’arte all’University of Iowa Museum of Arts. Avrebbe anche fatto parte, a New York, di “Atelier 17”, un seminario d’incisione a cui si erano associati anche Mark Rothko e Jackson Pollock. “Nazi Drawings” sono oggi visibili nelle collezioni permanenti della National Gallery of Art di Washington, dell’Art Institute of Chicago, e del Brooklin Museum.