Se ne sono andati (la donna che non raggiunse mai la riva)

Se ne sono andati (la donna che non raggiunse mai la riva)

Adrienne Rich

(16 maggio 1929 – 27 marzo 2012)

Di Baltimora, ha avuto un marito – economista – e tre figli. Poi, dal 1976, una compagna d’amore e di vita, la giamaicana Michelle Cliff. Ha avuto il dono della poesia, e l’attitudine al combattimento: «una delle poetesse più influenti del Novecento» (così l’hanno anche ricordata), è stata radicale e impermeabile al compromesso in tutto. Femminista, lesbica, sempre armata di ragioni e passione.
I migliori anni Settanta e Ottanta americani che sono andati avanti anche dopo, senza cedere all’ignoranza della cronache del secondo millennio.

Fra queste, la guerra all’Irak, l’intervento di George Bush figlio. La Casa Bianca la invitava a una conferenza sull’ “American Voice” in poesia, e lei rispondeva picche. Scelta facile – si potrebbe osservare – per un’artista vera, e veramente radical. Più complicato, nel 1974, non andare a ritirare il National Book Award for Poetry, anche dopo averlo accettato solo in rappresentanza di tutte le donne del mondo variamente offese, torchiate, o sconosciute.

La premiavano per la sua qualità intrinseca, lirica, letteraria: Auden aveva introdotto il suo primo libro, che aveva un titolo programmatico, “A Change of the World”. Dal 1963 – a neanche 35 anni – in poi, sarebbe stata vista e celebrata per la sostanza poetica di quello che scriveva, per l’epica che metteva nelle sue lotte del tutto consone ai suoi tempi (la condizione delle donne, l’emancipazione sessuale e dalla povertà, l’avversione alla politica di potenza), e per le sue opere: dalla raccolta “The Will to Change” (1968-70), a “Your Native Land” (1986), a “An Atlas of the Difficult World” (1991).

Quest’ultimo – un saggio di una persona più che sapiente, perché ipersensibile e oggettiva – osservava un Paese, il suo, che non aveva risposto ai “bisogni” dei suoi cittadini. Non poteva farlo e non ce l’aveva fatta, era segnato, secondo lei, da dei marchi d’origine: la miseria costante di milioni di americani affiancata alla ricchezza senza misura di pochi, la solitudine come condizione in crescita esponenziale, l’oppressione femminile come sostanza dei comportamenti diffusi.

Adrienne Rich ha denunciato tutte queste variazioni del suo tempo non solo americano – in conseguente complicità le une con le altre – scrivendo versi e facendo politica. E gesti che colpissero (soprattutto i poteri vari), e trascinassero nella protesta. Quando rifiutava, nel 1997, la National Medal of Arts, il suo bersaglio era l’amministrazione democratica, e duplicata in un secondo mandato, di Bill Clinton.

Gli faceva le pulci mettendo insieme critica sociale e ruolo, altrettanto sociale, degli artisti: “Le disparità radicali fra ricchi e poveri crescono a un ritmo devastante. Un presidente non può verosimilmente rendere omaggio, premiare, certi artisti selezionati, quando il popolo è cosi’diffusamente umiliato”. Sul piano, fondamentale, della vita personale di ogni donna, ha scritto un testo, che, già dal titolo, annuncia l’esattezza dell’analisi: “Compulsory Heterosexuality and Lesbian Existence” (1976).

Adrienne Rich non ha avuto né l’attitudine alla profezia apocalittica e autopubblicitaria di certi radical di ruolo (come Noam Chomsky o Naomi Klein), né i loro pregiudizi, usati come un marchio di mercato. È stata soprattutto una poetessa. E, per questo, potrebbe aver avuto, e avere, una vista molto lunga.  

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Lise London Ricol

(15 febbraio 1916 – 31 marzo 2012)

Novantasei anni, e il caso di una biografia che coincide con gran parte della storia della sinistra europea. Appena trascorsa, poco tempo fa, nel Novecento. Sembra molto lontana, nelle sue illusioni, nelle sue cadute, nei suoi eroismi. Ma, per tutte queste cose, ci resta attaccata, di riflesso. O almeno come materia di riflessione.

La storia di Lise ha toccato Paesi chiave di lotta, e di resistenze diverse: Spagna, Francia, Cecoslovacchia. È anche la storia di un matrimonio, o di una coppia a dir poco solidale di fronte al terrore staliniano decentrato a Praga poco più di 60 anni fa: Artur London, il marito, era un comunista importante, poi sospetto, e quindi processato, torturato, incarcerato. Ma scampato alla morte, e, per questo, dopo, testimone principe di quel periodo e delle perversioni feroci di quell’ideale.

La vita di Lise coincide con la convinzione che l’ideale comunista andasse comunque mantenuto, almeno individualmente, e fino in fondo: lei è rimasta comunista, anche partecipando, in Francia, ai congressi del Partito. È morta a Parigi, più che rispettata, oltre che decorata con la Legion d’Onore: come una cittadina che era stata “capitana” della Resistenza, arrestata nel 1942, e quindi deportata in due campi nazisti, a Ravensbruck e a Buchenwald. Dei passaggi, in fondo, lineari alla sua formazione.

Una giovane donna francese, comunista, figlia di un minatore spagnolo, immigrato, minatore e comunista (Ricol, il cognome originario), non poteva che essere un’antifascista combattente: anche in Spagna, durante la guerra civile, fra le Brigate internazionali. La somma di tutte queste cose produceva una scelta, e un carattere, internazionalista (una forma di globalizzazione ante-litteram, ma ancorata a degli ideali): a Mosca – capitale, negli anni Trenta, di quella forma proclamata a suon di propaganda – Lise incontrava il comunista ceco Arthur London, lo sposava, e dopo la guerra la coppia si sarebbe installata nella capitale cecoslovacca (il Paese boemo, moravo e slovacco era ancora unito).

London era diventato viceministro degli Esteri nel nuovo regime derivato dal colpo di Stato comunista del 1948. Il seguito, cioè il capitolo “London” dei processi di Praga, sarebbe stato raccontato in un celebre film di Constantin Costa Gavras, “La confessione”. Arthur è interpretato da Ives Montand, e Lise da Simone Signoret. Una doppia coppia perché, nella vita, Montand e la Signoret erano marito e moglie.

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Un film non particolarmente riuscito, ma con un valore descrittivo preciso, e di denuncia puntuale: usciva nel 1968, è stato un altro shock di quell’anno rivoluzionario, e di rivolte anche contro la Storia, e alcune storie – da intendere anche come bugie – del “socialismo realizzato”. 

Ma le date di quella Storia contenevano altre coincidenze, perché quel film derivava da un libro scritto dallo stesso London, una volta liberato (uno dei pochi accusati di “complotto borghese e sionista” a salvarsi dal capestro) e emigrato in Francia: il libro usciva proprio nel 1956, l’anno della rivolta in Ungheria, e della sua repressione in nome della “fratellanza socialista”.

Lise London, restando tutta la vita quello in cui credeva, ha protetto l’idea originaria di quel tipo di fratellanza: qualcosa che nell’Europa di oggi sembra ridotta a un pezzo di modernariato. In attesa di sorprendenti quotazioni in rialzo. Forse, negli anni a venire. 

Shirley May France

(11 agosto 1932 – 18 Marzo 2012)

Ex ragazza americana di Fall River, Massachusetts, bionda, sorridente, in costume da bagno, e pettinata all’indietro dal vento del mare. Già impavida nuotatrice: uno sport, un’arte, e un modo di essere vitale, e, a volte, molto elegante. A cui lei ha aggiunto, senza volerlo, un tratto di finezza ulteriore: quello di non essere riuscita a raggiungere il traguardo che si era data.

Non acchiappare l’obiettivo, in una gara solitaria, può essere un privilegio. Anche se, al momento, ci si ritrova mesti. Il privilegio di aver imboccato un cammino, una specie di Odissea sfiancante, senza aver raggiunto Itaca. Chi non ce la fa, può farsi i complimenti: diventa una specie di Nobel di una possibilità mancata.

Un personaggio raro – in un mondo di frenetiche corse al primato – e che viene ricordato. Per la suprema eleganza della sconfitta. Shirley May, di cognome France – già, in sé, sofisticato per una “girl” anni Quaranta di Fall River – è morta a 80 anni lasciando la memoria di due traversate della Manica tentate e interrotte per ragioni varie. Nel 1949 e nel 1950. Se ce l’avesse fatta sarebbe stata la prima donna a raggiungere quel traguardo. Con poche variazioni fra l’uno e l’altro tentativo, le cose sono andate in questo modo.

Prendiamo l’impresa del 1949: la ragazza – bella, glaucopide, col naso proporzionato un po’ in alto – si immergeva nella gelida acqua marina di Cap Griz Nez (costa francese) il 6 settembre di quell’anno alle 5 e 26. Indossava un costume con la scritta “Black Magic”. Diversi ritardi, prima di quell’ora, dovuti al cattivo tempo. Dopo 10 ore di nuoto, e a sei miglia da Dover, Shirley, quasi assiderata, con crisi di nausea, al limite dell’inconscienza e dell’affogamento, veniva raccolta dalla barca che la seguiva.

L’impresa mancata aveva un precedente più fortunato: nel 1948 (a 16 anni) era stata la prima ragazza ad aver attraversato a nuoto il Lake George: dalla costa dello Stato di New York a quella del Vermont. Vittoriosa fra cento concorrenti. Prima del tentativo nella Manica, Hollywood, naturalmente, aveva promesso un contratto per trasferire il tutto in un film.

Al suo ritorno in America, Shirley veniva comunque festeggiata: parate pubbliche con majorettes, inviti promozionali (pubblicità alle gare di nuoto, e a certe marche di costumi da bagno), proposte diverse di matrimonio, amicizia immediata con Clark Gable, e Johnny Weissmuller (ex campione in quello sport, e poi celebre Tarzan cinematografico). E Frank Sinatra che la cantava.

I ricordi su di lei precisano che il secondo tentativo era stato interrotto semplicemente perché era stremata. E un altro non aveva preso il via perché il padre non aveva provveduto a firmare il contratto con uno sponsor che si era offerto. 

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