Il mondo della scuola scende in piazza per gridare no ai tagli indiscriminati al settore e fare muso duro ad una politica dell’austerity rea di colpire soltanto i ceti deboli. Ne abbiamo parlato con Tullio De Mauro, linguista, autore di studi tradotti in molte lingue, è uno degli intellettuali più apprezzati dei nostri giorni.
Interrogato sull’attuale condizione in cui versa il BelPaese, e sulle proteste che in queste ore infiammano le piazze non solo d’Italia, ma anche di altri Paesi dell’Ue, l’insigne linguista offre una panoramica a trecentosessanta gradi su un malessere sociale che si propaga a macchia d’olio.
Professor De Mauro, oggi tutta l’Europa scende in piazza contro le politiche di austerity . Una giornata di scioperi che investe i principali paesi dell’Unione. A protestare anche studenti e insegnanti. Il malessere sociale è sempre più diffuso, e non solo nel nostro Paese. Dove si può rintracciare l’origine di tanto malcontento? E perché?
Da molti anni, perlomeno dagli anni Novanta, c’è un gruppo internazionale, il Trilateral, in cui ci sono un po’ di magnati delle grandi industrie e anche economisti iper liberisti, notabili di varie organizzazione e enti. Tra l’altro per l’Italia, di diritto c’è il rettore della Bocconi, Carlo Secchi, ed anche il Presidente attuale del Consiglio, Mario Monti, ne è parte. Questa organizzazione ha come bersaglio non tanto la generica austerity, quanto gli investimenti – che loro chiamano spese – per l’istruzione. E quindi in questi anni, a getto continuo, ha elaborato strategie per eliminare l’apparato dell’istruzione pubblica, che alcune di questi personaggi hanno definito un’invenzione degli illuministi francesi, dei comunisti, insomma: qualcosa di rovinoso e peccaminoso. Persone molto autorevoli come Noam Chomsky ritengono che ci sia un filo diretto tra le proposte della Trilateral e quello che sta succedendo in giro per il mondo. Io mi sento di definire eccessiva questa chiave di lettura. Perché credo che siano le banche e gli speculatori finanziari la causa di questa situazione. Sono loro, le molte stazioni del grande capitale finanziario, i responsabili principali dei dissesti e dei disastri che stiamo vivendo, nonché delle politiche che si sviluppano per contenere gli effetti negativi della speculazione finanziaria internazionale e del loro fallimento.
Qual è quindi la direzione che si sta percorrendo?
Le vie che si seguono sono quelle della riduzione dello stato sociale, colpendo scuola, università e ricerca. In Italia questo è particolarmente accentuato. Ecco perché a me pare molto preoccupante che nell’opinione pubblica non ci sia una sufficiente attenzione a ciò che scuola, università e ricerca possono dare allo sviluppo di un Paese, e non solo alla vita civile e democratica. E’ impressionante questa mancanza di attenzione collettiva, ed è un alibi per le politiche dei governi passati e del presente. E’ molto difficile risalire questa china, perché la protesta è affidata a larga misura a movimenti spontanei, e qua e là per fortuna a qualche sindacato, ma poco a forze politiche organizzate e a partiti. C’è però qualche eccezione…
Quale?
La posizione del Partito Socialista in Francia, ad esempio. Ed è interessante seguire i discorsi che il governo socialista sta facendo.
E in Italia si può riuscire secondo Lei a fronteggiare questa situazione?
E’ una battaglia molto difficile. In Italia tutto questo piove, per così dire, su una situazione già molto precaria, da anni ed anni, per l’università e per la ricerca, e non brillante per la scuola. Nel confronto internazionale noi eravamo già messi male per tutti questi settori e per l’investimento pubblico, ora con le riduzioni, contrazioni, aggressioni vere e proprie all’apparato pubblico di scuola, università e ricerca, la prospettiva è oramai drammatica.
Oltretutto ieri il Senato ha approvato un emendamento a firma leghista: carcere fino a un anno per la diffamazione a mezzo stampa. Cosa rappresenta questo emendamento per la nostra società?
Si tratta di un provvedimento molto pericoloso, perché in un giornalismo che già soffre di autocensure, andrà a limitare ulteriormente l’informazione.
Lei è stato Ministro dell’Istruzione nel 2000-2001, sotto il Governo Amato. Sono passati più di dieci anni. Quale la situazione che ha lasciato, e quale la rotta intrapresa nell’ultimo decennio?
La rotta che è stata presa subito dopo le elezioni del 2001 è stata quella di cancellare, per il possibile, tutto quello che era stato fatto dai governi di centro sinistra, a partire dal riordinamento dell’architettura scolastica fino ad arrivare al rinnovamento dei contenuti della scuola di base. Tutto questo è stato spazzato via in ventiquattro ore, eliminato dai siti del Ministero, come se mai fosse esistito. Con un atto, devo dire, poco responsabile. Perché poteva essere conservato in archivio, e poi sostituito da altri provvedimenti…
Ed invece è stato fatto sparire tutto?
C’è stata quella che gli antichi romani facevano con le vestali peccaminose, vale a dire scalpellavano i nomi e le lapidi. C’è stata una damnatio memoriae, realizzata dai governi successivi. Un provvedimento grave che ha interessato me, e chi lavorava al mio fianco.
Dal Ministro Gelmini al Ministro Profumo: quali i provvedimenti più deprecabili, in materia di istruzione, presi nel corso di questi ultimi anni?
Tanti, mi pare inutile fare l’elenco, sarebbe troppo lungo…
Tagli alla Cultura: perché e che danno si provoca alla società?
Una diminuzione drammatica delle possibilità di vita civile, di tutto ciò che lo sviluppo della cultura dà alla vita sociale complessiva. In particolare, considerando riduttivamente gli aspetti economici, un danno grave allo sviluppo economico e produttivo di un Paese.
Qual è l’immagine che offre l’Italia all’estero?
Chi di noi fa un mestiere intellettuale può testimoniare quanto sia stato penoso, in particolare negli anni passati, – quindi onore a Monti da questo punto di vista – , incontrare colleghi di altri paesi che ci guardavano non tanto con disprezzo, quanto con un’aria di stupore radicale. “Ma come fate a tenervi queste persone al governo?”, era la domanda più diffusa che ci sentivamo rivolgere.
Il dibattito politico in questi giorni in Italia è tutto concentrato sulle primarie. Si tratta di un modello importato dagli Stati Uniti, crede che siano efficaci anche nel nostro Paese?
Non sono un cattivo meccanismo, ma neanche un toccasana, perché i processi di selezione di quelli che si presentano alle primarie sono processi che si sono atrofizzati negli anni, con la perdita di quelle grandi consociazioni che erano i partiti di massa. Il risultato è che non si sa bene come si formino i gruppi dirigenti, anche a livello locale. Né a destra, né a sinistra, né al centro. C’è una certa casualità. Ed allora non è ben chiaro da quali esperienze venga, che qualità abbia chi viene scelto per candidarsi alle primarie. Insomma, rispetto ai partiti leggeri ma molto radicati localmente degli Stati Uniti, noi non abbiamo un qualche equivalente.
Negli Stati Uniti Barack Obama è stato rieletto Presidente per la seconda volta. Abbiamo qualcosa da imparare dagli Usa?
Abbiamo moltissime cose da imparare, ma la storia degli Stati Uniti è molto diversa dalla nostra, e quindi bisogna essere cauti nell’importare, come fosse Coca Cola, alcuni aspetti della vita americana. Che non è la sola a dover esser guardata. Ci sono altri paesi, dalla Corea al Giappone, alla Finlandia o ai paesi Scandinavi, in cui la solidarietà sociale è molto più forte rispetto agli Stati Uniti.
“Il meglio deve ancora venire” ha affermato il Presidente afroamericano nel suo discorso di ringraziamento.
E per l’Italia?
Lo ripeto, non siamo negli Stati Uniti e quindi, presupponendo che Obama abbia ragione – e l’augurio è che abbia ragione – noi non possiamo fare lo stesso discorso.
D’accordo, ma possiamo credere anche noi che “il meglio deve ancora venire”, oppure ci dobbiamo aspettare che “il peggio continuerà ad esserci”?
Credo che un po’ di peggio continuerà ad esserci.