Un libro su Giovanni Falcone a venticinque anni dalla sua morte non è soltanto un modo per tenere viva una storia essenziale dell’Italia di ieri. È innanzitutto un strumento per rileggerla questa storia, anche per ricordarci che abbiamo alle nostre spalle vicende drammatiche tutt’altro che chiarite. Giovanni Bianconi, inviato del Corriere della Sera, ha da poco pubblicato con Einaudi “L’Assedio”, dopo molti volumi dedicati agli anni di piombo.
Possiamo dire che Moro lo uccidono le BR ma altri ne traggono vantaggio e così Falcone lo uccide Cosa Nostra sempre a beneficio di altri?
Diciamo che in tutti e due i casi l’uscita di scena delle due vittime non dispiace anche a soggetti che non hanno partecipato in alcun modo agli omicidi. In fondo quelli sono i due fatti criminali più importanti della storia della Repubblica, due autentici punti di svolta. Al punto da levare di mezzo due autorevolissimi candidati alla Presidenza della Repubblica come Moro stesso e Andreotti con la morte di Falcone. Tra l’altro nel secondo caso con una coincidenza impressionante, poiché proprio mentre esplode la bomba di Capaci, Andreotti è a colloquio con Claudio Martelli per chiedere l’appoggio socialista alla sua candidatura. Moro scomodo per la sua posizione in favore del compromesso storico, Falcone scomodo per le indagini che avrebbe potuto mettere in moto se fosse arrivato alla nascente Superprocura Antimafia, da lui tanto caldeggiata nonostante le forti opposizioni interne alla magistratura. Dobbiamo però essere rigorosi su un punto così delicato. Non possiamo dire che vi sono state complicità operative “esterne” negli omicidi. Nel caso di Falcone venticinque anni di indagini non hanno dato riscontri in questo senso. Però sappiamo che diversi pentiti hanno affermato che Riina “compulsa” alcuni ambienti prima di passare alle pallottole per Lima e alle bombe di Capaci e via D’Amelio. Quello stesso Riina che dice ai suoi compari di sentirsi con le spalle coperte.
Nessuna città al mondo conosce omicidi in serie che riguardano magistrati, uomini delle forze dell’ordine, figure delle istituzioni come Palermo. Possiamo dire che abbiamo un quadro dignitosamente chiaro su come è andata davvero?
Direi di no. Le zone non chiare sono purtroppo numerose. A cominciare dall’omicidio di Piersanti Mattarella, ucciso mentre è Presidente della Regione in carica. Anche Falcone lavora lungamente sul dossier, ma nessuno riesce neppure a individuare gli esecutori materiali, che invece per altri delitti eccellenti conosciamo. E comunque non abbiamo, soprattutto per il passato, il quadro delle responsabilità o delle connivenze di più alto livello. Ci si arriva per vicende più recenti, che portano anche un Presidente della Regione in carcere per connivenze mafiose. Però sul passato sono molte le cose che non sappiamo, molti gli intrecci che restano avvolti nella nebbia. Da una sentenza ormai definitiva sappiamo che Andreotti incontra il capomafia Bontate prima e dopo il delitto Mattarella. Lo sappiamo come dato di fatto, ma non ne conosciamo tutti i retroscena. È quindi evidente che c’è ancora molto da scoprire.
«L’opposizione a Falcone è trasversale. Anche a destra non sono certo dalla sua parte. Però inizialmente la parte più di sinistra lo sostiene, così fa anche il PCI. A un certo punto però passa l’idea che lui non vuole andare oltre, che vuole fermarsi di fronte all’intreccio con la politica. Un’idea sbagliata»
Falcone però si oppone strenuamente all’idea di un “terzo livello”, di una qualche direzione politica delle cosche mafiose.
Falcone è il magistrato che scopre e inchioda la mafia dei Corleonesi, guidata da Totò Riina. Quella organizzazione non ha sopra una regia politica o affaristica, ma certamente ha pezzi di mondo delle istituzioni e e dell’impresa privata con cui si tiene in stretto contatto. In molti casi sono i politici a livello locale a prendere ordine dai mafiosi. Si prenda il caso di Ciancimino, un personaggio di primo piano dell’epoca. Sappiamo dai pentiti che sono Riina e Provenzano a comandare, non il contrario.Falcone, un magistrato che il mondo ci invidia. Negli Stati Uniti lo venerano, in Italia lo attaccano da tutte le parti, a cominciare dai suoi colleghi, spesso anche da sinistra.
L’opposizione a Falcone è trasversale. Anche a destra non sono certo dalla sua parte. Però inizialmente la parte più di sinistra lo sostiene, così fa anche il PCI. A un certo punto però passa l’idea che lui non vuole andare oltre, che vuole fermarsi di fronte all’intreccio con la politica. Un’idea sbagliata, che non corrisponde in alcun modo al pensiero e all’azione di Giovanni Falcone. Lui vuole salvaguardare le indagini, far in modo che siano efficaci e giungano a sentenza. Detesta cioè l’idea dell’inchiesta-annuncio. Però Falcone è anche un magistrato ingombrante, che prende la parola, scrive sui giornali, dice a voce alta quello che pensa, sostenendo una verità scomoda come quella della necessità di riformare in modo drastico le modalità operative delle Procure per cercare di sconfiggere le mafie. Certo, lui si espone anche perché teme per la sua vita, usando la visibilità come strumento di difesa. Tutto ciò crea mille invidie, mentre a sinistra non piace l’idea di condizionare l’autonomia assoluta del pubblico ministero. Falcone ha in mente il modello americano, con forte separazione tra chi indaga e chi giudica.Le stragi di mafia cadono negli anni ’92-’93, proprio quando finisce la Prima Repubblica. È pura coincidenza?
Questo è un interrogativo di grande rilevanza, cui possiamo rispondere senza avere però tutti gli elementi che vorremmo. Certo negli anni ’92-’93 vediamo messa in atto una nuova versione della strategia della tensione, questa volta di carattere mafioso. Abbiamo anche qui diversi pentiti che ci dicono che vari capimafia vengono avvicinati da personaggi legati ai servizi segreti, più o meno deviati. Questi personaggi spingono per un attacco frontale. Lo stesso Riina lo spiega ai suoi colonnelli, quando racconta di aver fatto delle verifiche prima di passare all’attacco, ottenendo un sostanziale via libera. Qualcuno può aver immaginato di trarre benefici da quello scontro frontale, anche se poi i mafiosi pagano quasi tutti con lunghe detenzioni al 41 bis le loro scelte. Per arrivare a questo però ci vogliono le stragi. Ecco allora che potremmo anche pensare che chi spinge i mafiosi ad aprire la stagione delle bombe li sta utilizzando, perché sa che poi la reazione finirà per toglierli di mezzo. In fondo esattamente così va con i neofascisti fino al ’74. Vengono incoraggiati a mettere le bombe e poi finiscono tutti in galera.Dobbiamo pensare quindi, citando proprio Giovanni Falcone, all’azione di “menti raffinatissime”?
È certamente così. Falcone lo pensa e lo dice ripetutamente. E utilizza quella espressione pensando al suo personale destino di morte, che già con l’ordigno posizionato all’Addaura nel 1989 è drammaticamente chiaro. E d’altronde cos’altro è se non un raffinato disegno, quello dietro la sigla “Falange Armata”, che rivendica tutti gli attentati mafiosi di quel periodo, compreso l’omicidio di Salvo Lima? Nessun ha mai chiarito bene di cosa si tratta, ma le poche evidenze che abbiamo riportano ad apparati più o meno collegati ai servizi e a parti delle forze dell’ordine. Lo stesso dicasi per le lettere del “Corvo”, nate nell’ambiente della procura di Palermo anni prima con l’intento di delegittimare Falcone. Tutto è gestito da professionisti di queste attività. Proprio menti raffinatissime, come le chiama lui.«Falcone avvia un monitoraggio della sentenze passate, che conduce all’introduzione del meccanismo della rotazione nell’assegnazione dei procedimenti alle varie sezioni. Insomma quello che sappiamo è che Riina mostra fiducia nell’esito favorevole e che Falcone è preoccupato»
A un certo punto Falcone lascia la Procura di Palermo a va ad assumere un ruolo dirigenziale al ministero della Giustizia, su proposta di Claudio Martelli. Fa bene?
Non lo so. Però lui decide così perché capisce che non ha alternativa, poiché tutte le porte sono ormai chiuse.Sono i mesi in cui si attende la sentenza definitiva sul Maxi-Processo, che ha condannato in primo e secondo grado l’intero stato maggiore di Cosa Nostra. Perché la mafia si aspetta un atteggiamento benevolo della Suprema Corte?
Diciamo subito che Corrado Carnevale (Presidente della Prima Sezione della Corte, che ha annullato diversi processi, ndr) è stato prima assolto, poi condannato e poi assolto in forma definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa. E di questo dobbiamo tenere conto. Certo lui e la sua sezione della Corte di Cassazione non hanno in grande “simpatia” il metodo del maxi processo e non ne fanno mistero. D’altronde sappiamo che Falcone viene a Roma anche per salvare il “suo” processo, per fare di tutto affinché le durissime condanne inflitte in primo e secondo grado reggano anche all’esame di legittimità. Si impegna personalmente, andando a parlare con il Primo Presidente della Corte e lo stesso fa il ministro Martelli. Ma non solo. Falcone avvia un monitoraggio delle sentenze passate, che conduce all’introduzione del meccanismo della rotazione nell’assegnazione dei procedimenti alle varie sezioni. Insomma quello che sappiamo è che Riina mostra fiducia nell’esito favorevole e che Falcone è preoccupato. Dopodiché è andata come è andata (le condanne vengono tutte confermate, a presiedere la Corte è il magistrato Arnaldo Valente, ndr). Però io ricordo molto bene che all’epoca tutti dicevano che la Cassazione avrebbe annullato o comunque ridimensionato la sentenza di secondo grado.Falcone sa quale fine lo aspetta. Possiamo dirlo con certezza?
Sì è così. Ne ha perfetta coscienza anche perché Buscetta su questo punto spende con lui parole inequivocabili. Falcone conosce alla perfezione Cosa Nostra e sa che non c’è via d’uscita. Tranne quella di fare ogni sforzo per rendere sempre più efficace il sistema di protezione. Proprio per questo mantiene alta la sua visibilità, per contrastare ogni fenomeno d’isolamento che diventa funzionale al progetto mafioso di eliminarlo.Guardiamola allora con gli occhi dello Stato. Poteva andare diversamente? Vale per Giovanni Falcone, ma anche per Paolo Borsellino.
Certamente lo Stato non li ha saputi proteggere. Capisco che è difficile impedire un gesto come far saltare un tratto di autostrada, soprattutto se a muoversi sono criminali così determinati. Però se poi c’è anche una camera di compensazione dove la mafia parla anche con altri soggetti e in quella camera si dice che il Paese può digerire attentati così, ecco che allora la strada che porta alle stragi di Capaci e via D’Amelio diventa meno faticosa. Per questo dico che quello che non sappiamo è tutt’altro che secondario.