L’etica farlocca di internet ci fa regredire all’inciviltà (e non ce ne rendiamo conto)

Sui social quando un contenuto diventa virale c'è sempre qualcuno che fa la morale. E più nel virtuale le preoccupazioni raggiungono vette (discutibili), più il mondo reale regredisce all'inciviltà

Fotogramma video

Nel giorno in cui l’Ocse metteva nero su bianco, con un rapporto sui laureati tra i 25 e i 34 anni, lo sfascio sociale e culturale del Paese, l’intellighenzia italiana decideva che era più importante spiegare al popolo perché ridere di un direttore di banca (pardon, direttorA) stonata fosse un crimine.

Uno dei temi davvero importanti della contemporaneità è senza dubbio la regolamentazione dei social network e delle contraddizioni che essi pongono in termini di libertà di espressione. Il fatto che Facebook, Google e tutti gli altri possano agire (e incassare) come editori senza però sottostare alle norme che regolano l’editoria, è una stortura che andrebbe sanata al più presto. Dal cyberbullismo al revenge porn la rete pullula di trappole, ma proprio perché trattasi di problema serio, nessuno ha ancora cominciato a occuparsene davvero seriamente.

Tuttavia, nel momento in cui a finire sotto processo è la classica scivolata sulla buccia di banana, e chi ne ride viene additato nel migliore dei casi di essere “un cretino” e nel peggiore “un mostro”, è segno che, ridendo e scherzando, a finire sotto attacco è il dominio della libertà personale così come l’abbiamo finora conosciuta.

Da un po’ di tempo, ogni volta che una vicenda d’attualità conosce un qualche tipo di viralità sui social, i meccanismi virali che si innescano sono due. C’è un primo meccanismo, legato alla vicenda in quanto tale: il video, il post, la notizia che gli utenti ricondividono all’infinito. Ma ce n’è sempre un secondo, costituito dal discorso che si innesca sopra la vicenda stessa e che, con forme diverse, ha sempre a che fare con l’etica.

L’altro ieri la vicenda d’attualità riguardava il direttore di banca (pardon, direttorA) che cantava in modo buffo con i colleghi: virale era il video, ma virale erano anche le Catilinarie con cui opinionisti e conduttori spiegavano quanto fosse sbagliato riderne e, ancora peggio, condividerlo.

Il carattere profondamente bigotto su cui si regge il meccanismo è evidente: se dovesse valere sempre il principio del “chi è senza peccato scagli il primo twit”, in breve a chiunque sarebbe vietata ogni facoltà di critica. Allo stesso modo, se la risata istintiva dovesse attraversare ogni volta le forche caudine dell’”esame di coscienza”, potremmo dire addio non solo alla satira.

Anni fa, Calderoli – da vicepresidente del Senato della Repubblica– diede dell’orango all’allora ministra Cecile Kyenge. Per qualche ora la condanna fu unanime, come si conviene a un odioso episodio di razzismo. Ma passata una prima ondata di indignazione, spuntò la geniale domanda: “E quelli che dicono che Brunetta è basso? Sono tanto diversi?”. A quel punto si smise di parlare del fatto che un politico, nell’esercizio delle sue funzioni, avesse equiparato una donna afroamericana ad un primate e divenne virale il discorso sull’etica di chi si azzardava a criticare Calderoli.

Il carattere profondamente bigotto su cui si regge il meccanismo è evidente: se dovesse valere sempre il principio del “chi è senza peccato scagli il primo twit”, in breve a chiunque sarebbe vietata ogni facoltà di critica. Allo stesso modo, se la risata istintiva dovesse attraversare ogni volta le forche caudine dell’”esame di coscienza”, potremmo dire addio non solo alla satira – già bandita dal mondo Occidentale – ma anche ai meccanismi comici più banali. Se ogni volta che vedo un tizio scivolare su una buccia di banana non sono libero di riderne, e se lo faccio sono una brutta persona, allora si dovrebbero vietare Fantozzi e Charlie Chaplin, in quanto pericolosissimi cattivi maestri.

Eppure i teorici della netiquette, quelli che davanti ad ogni argomento – non solo quelli descritti e sanzionati dal Codice Penale – tirano fuori la benedetta questione etica sembrano puntare proprio a questo, alla messa al bando di ogni pulsione istintiva dal discorso pubblico. Si direbbe che in una società talmente ossessionata dall’etica virtuale corrisponda un’uguale attenzione per il mondo reale. E invece accade l’esatto opposto: più nel virtuale le preoccupazioni raggiungono vette discutibili, più il mondo reale regredisce ad un livello di inciviltà tale da far sospettare la fine dell’Illuminismo.

Scoppiano battaglie per abolire l’uso del plurale collettivo maschile o per incentivare l’uso di obbrobri linguistici come presidentA o direttorA; ma del fatto che in Italia, ai colloqui di lavoro, sia perfettamente legale chiedere a una donna se è sposata o se ha intenzione di fare figli non importa davvero a nessuno.

Quattro “sfigati con gli anfibi” e un paio di anziani rincoglioniti con qualche cianfrusaglia arrugginita sul frigo fanno scoppiare un moto di sdegno grazie al quale viene approvata, in tutta fretta, una legge speciale; ma quando un regista viene aspettato sotto casa e spedito all’ospedale per il contenuto di un film la notizia, gravissima, è accolta da un pigro sbadiglio.

Eticoni ed eticone da tastiera d’Italia sono lesti a spiegare sul web come ci dovremmo comportare, cosa dovremmo dire e quando dovremmo ridere, in virtu’ della loro capacità ad “empatizzare” o ad “immedesimarsi” negli inermi, negli ultimi, nelle vittime; ma poi sono campioni di menefreghismo quando si tratta di passare ai fatti.

Eticoni ed eticone da tastiera d’Italia sono lesti a spiegare sul web come ci dovremmo comportare, cosa dovremmo dire e quando dovremmo ridere, in virtu’ della loro capacità ad “empatizzare” o ad “immedesimarsi” negli inermi, negli ultimi, nelle vittime; ma poi sono campioni di menefreghismo quando si tratta di passare ai fatti.

Inutile scrivere panegirici a favore della legge Fiano se poi non si fiata davanti a un’aggressione fascista; inutile fare ogni giorno una capriola linguistica se poi non si afferra la politica per il bavero, esigendo leggi che sanciscano la parità di genere da un punto di vista finanziario e culturale.

Da una parte si ha la pretesa di trasformare il web in un Leviatano alla Hobbes, da cui espellere chi, con grossolano umorismo da terza media, ride del video del direttore di banca (pardon, direttorA) o dello spot del Buondì; dall’altra ci si lava del mani di quanto accade nel mondo reale, soddisfatti per averle cantate su internet al “cretino” di turno. Per dirla un po’ con Kierkegaard, una concezione dell’etica puramente di tipo “estetico”: ciò che conta davvero, per i Catoni del web, è la loro immagine, attraverso cui differenziarsi e dare prova di superiorità nei confronti di una plebe caciarona, e ‘sti cazzi di tutto il resto.

Siamo davanti, insomma, a una schiera di veline e velini dell’Ego, che usano l’etica come pretesto per non sporcarsi le mani, per non entrare nel merito delle (tante) complicate questioni. E nel vedere quanto siano ciarlieri sul piano delle chiacchiere e parchi su quello delle azioni, sale il legittimo sospetto che a loro, delle vittime, degli ultimi e degli intermi importi assai poco, perché se davvero gliene importasse incomincerebbero da lì, dal mondo reale, e non dalle questioni virtuali e linguistiche.

La famosa “bolla cognitiva”, del resto, esiste principalmente da un punto di vista etico: se è immorale ridere di un video perché il protagonista potrebbe restarci male allora dovrebbe essere immorale ridere di tutti, non solo di quelli che ci stanno simpatici come oggettivamente simpatica era la tizia del video. Ma questo, come si sa, non accade: del Brunetta basso o dell’Adinolfi grasso continueranno a ridere tutti, così come tutti rideranno – meno male – se alla scampagnata su Roma un anonimo naziskin scivolerà su un escremento canino e si romperà il polso con cui era intento a fare il saluto romano, settando un nuovo record mondiale di condivisioni e soprattutto di pernacchie.

Piuttosto che obbligare la critica, e la risata, ad un’impossibile gincana tra infinite sensibilità per non rischiare di turbare nessuno, sarebbe meglio cominciare a prendenderci tutti meno sul serio; spiegare bene, insomma, che un conto sono lo sberlfeffo e la buccia di banana, un conto l’hate speech e il cyberbullismo – per i quali ci sono processi, leggi e definizioni giuridiche. E magari salvare l’etica per i temi concreti, come lo sfascio illustrato dall’Ocse mentre eravamo impegnati a ridere o a impedire di farlo.

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