La caccia al gigante digitale potrebbe presto arrivare a un punto di svolta: con la digital tax. In ambito europeo e nazionale se ne parla da qualche tempo. Anche all’ultimo Ecofin di novembre, l’agenda dei ministri delle finanze dei 28 Stati membri conteneva il tema di una tassa sul fatturato delle grandi aziende online. A parole, infatti, sembrano tutti concordi: c’è bisogno di una misura condivisa con cui evitare che i big del settore aggirino la normativa fiscale o riescano a trovare soluzioni per cui pagano le tasse in Paesi con un trattamento favorevole rispetto a quello in cui effettivamente operano. D’altronde, secondo alcuni calcoli, le aziende di Internet attive nell’Ue pagano, in media, un’aliquota di imposta effettiva del 9,5% contro il 23,2% pagato dalle aziende tradizionali. Una sperequazione a cui porre rimedio. Peccato che l’accordo sia ancora lontano.
In campo, ci sono due schieramenti. Il primo, capitanato dalla Germania, vorrebbe trovare una soluzione di portata globale all’interno dell’ambito Ocse. Una possibilità che secondo le più rosee aspettative potrebbe diventare realtà non prima del 2020. L’altro schieramento, a guida francese (con il supporto dell’Italia), vorrebbe accelerare i tempi così da intestarsi, a livello internazionale, il primo punto della contesa. In questo senso, ci sarebbe la volontà di introdurre una tassa del 3% da applicare a quelle aziende digitali con un giro d’affari superiore ai 50 milioni di euro all’anno. Secondo alcuni calcoli, questa aliquota genererebbe un gettito pari a 5 miliardi di euro e rappresenterebbe la prima pietra di un’uniformità fiscale a livello comunitario che sembra sempre lontana dal realizzarsi.
Inutile dire che, delle 150 aziende potenzialmente soggette a questa tassazione, le più importanti (Google, Amazon, Facebook, Apple) sono americane. E in tempi di guerra commerciale c’è da chiedersi quale potrebbe essere la reazione di Donald Trump: scontro totale in difesa dei campioni a stelle e strisce, oppure consenso per una sunset clause (come viene chiamato un accordo temporaneo) europea che verrebbe poi rettificata in caso di accordo a livello Ocse? Il prossimo Ecofin, in programma il 4 dicembre, potrebbe essere l’occasione giusta per far fronte comune.
In Europa ci sono due schieramenti in campo: il primo guidato dalla Germania, il secondo a guida francese con il supporto dell’Italia
Nel frattempo, l’Italia si è ritagliata un ruolo di primo piano sul tema. All’indomani dell’incontro europeo di novembre, il ministro delle Finanze italiano, Giovanni Tria, ha dichiarato che il nostro Paese sostiene «la finalizzazione dei lavori tecnici sulla web tax con l’obiettivo di trovare un accordo europeo entro la fine dell’anno», ma «se non avremo questo accordo introdurremo la tassa» a partire da inizio 2019. Più precisamente, dal primo gennaio del nuovo anno, quando dovrebbe scattare la versione tricolore della web tax. Una tassa il cui percorso legislativo ha sofferto di diversi arresti, ripartenze e cambiamenti. A partire dal nome.
In effetti, web tax e digital tax sono due cose diverse. La differenza si è resa necessaria per superare la prima proposta di una tassazione simile depositata nel 2013 dal democratico Francesco Boccia. Messa da parte con l’arrivo al governo di Matteo Renzi, la proposta Boccia presentava diverse complicazioni. Su tutte, l’obbligatorietà di aprire una partita Iva in Italia per aziende di ecommerce e digital advertising e l’obbligo di tracciabilità fiscale in Italia per quelle attive nel search advertising. L’idea alla base della proposta era quella di tassare le transazioni online piuttosto che il fatturato delle aziende.
Dal primo gennaio del 2019 dovrebbe scattare la versione tricolore della web tax, che è diversa dalla digital tax
Con lo stesso impianto, a ottobre 2017 in Commissione Bilancio del Senato è stato approvato un emendamento che prevedeva un’imposta del 3% (inizialmente era del 6%) sulle transazioni digitali realizzate in Italia per un gettito previsto fra i 114 e i 190 milioni di euro. Prevista per il luglio 2018, la sua entrata in vigore è poi stata posticipata a gennaio 2019 sulla scorta del nascente dibattito europeo che, nel frattempo spostava il focus della questione e delle critiche che venivano dal mondo digitale italiano. «Le norme che entreranno in vigore a gennaio rischiano di essere eccessivamente punitive per le aziende italiane e di generare un gettito minore rispetto a una tassa più aderente alle condizioni ideali del mercato», ha commentato Carlo Noseda, presidente di Iab Italia, l’associazione di categoria delle aziende dell’advertising interattivo (settore che nel 2018 dovrebbe toccare quota 3 miliardi di euro).
Nonostante le problematiche, il dibattito italiano e quello europeo tracciano la via a livello internazionale. India e Corea del Sud, per esempio, seguono da vicino l’evoluzione della web tax. E se, nel caso dell’India, si attendono spunti per migliorare una sorta di prelievo compensativo (equità levy) già attivo e che mira a garantire lo stesso trattamento fiscale agli operatori domestici e stranieri; la Corea del Sud vuole capire come riuscire a recuperare più degli attuali 100 milioni di won a fronte dei 5 trilioni (4,4 miliardi di dollari) generati dai colossi digitali nel Paese. Nel frattempo, c’è anche chi ha deciso di fare di testa propria. La Gran Bretagna, alle prese con le fasi finali della Brexit, ha già deciso che dal 2020 sarà introdotta una tassa sui servizi digitali da applicare alle piattaforme con entrate globali superiori ai 500 milioni di sterline. Il ritorno per lo stato dovrebbe essere di circa 400 milioni di pound.