L’uomo non vuole compiersi ma attendere. In effetti, una religione è una tenda – un luogo per validare l’attesa. Il Cristianesimo non riduce l’atto dell’attesa – lo esaspera. Gli ebrei attendono il Messia, decrittandone il volto tra l’algebra alberata della profezia. I cristiani attendono del Messia la ‘seconda venuta’, la parusia, quella definitiva, che sfoga nel Giudizio. Si attende con fame, da assetati, Colui di cui si è visto il viso senza che alcuno specchio abbia saputo intingerne i dettagli.
Un secolo fa, nel 1919, William B. Yeats scrive The Second Coming, tra le sue poesie più note e notevoli. Due anni prima aveva impalmato George Hyde-Lees, 27 anni più giovane di lui. Lei aveva doti divinatorie, praticava la scrittura automatica, lui fu il segugio delle sue ispirazioni ultradivine. Da una donna non si può chiedere di più: essere il tramite tra questo e gli altri regni. “Mi offersi di passare il resto della vita a spiegare e a mettere insieme quelle frasi sparse”, scrive il poeta nella prefazione a Una visione, il libro magico che riassume la sua poetica. Il poeta fu ornato con il Nobel per la letteratura nel 1923; due anni dopo se ne esce con A Vision, libro di lunatica bellezza che istigava imbarazzo a fiumane di fieno nell’ugola dei critici. Il mondo si stava progettando con rigore scientista e piglio capitalista e lui, il poeta, vagava tra le epoche, strologava i futuri, chiacchierava con gli spettri. L’esito lirico, in ogni caso, fu straordinario: nel 1921 è pubblico Michael Robartes and the Dancer – al cui interno giace, come un diamante, The Second Coming –; nel 1928 esce The Tower, raccolta vertiginosa – che conserva Sailing to Byzantium. Michael Robartes è la figura centrale di A Vision. “L’anima che ricorda la propria solitudine/ Rabbrividisce in molte culle; tutto è mutato./ Vuole servire il mondo, e mentre serve…/ L’anima e il corpo prendono la rozzezza/ Della bestia da soma”, gli fa dire Yeats.