Jun’ichirō Tanizaki ci ha mostrato le diverse tonalità dell’ombra e la ragione per cui lì, al riparo dalla grandine luminosa, dove ogni cosa è se stessa e l’altra parte, dove un viso è contraffatto dall’immaginazione e deterso dal desiderio, nasce la narrativa. In effetti, le parole non mettono in luce, fanno ombra. Ombreggiano – dando più dimensione ai ‘fatti’. Dicono celando, come gli oracoli.
“V’è, forse, in noi Orientali, un’inclinazione ad accettare i limiti, e le circostanze, della vita. Ci rassegniamo all’ombra, così com’è, e senza repulsione. La luce è fievole? Lasciamo che le tenebre ci inghiottano, e scopriamo la loro beltà. Al contrario, l’Occidentale crede nel progresso, e vuol mutare di stato. È passato dalla candela al petrolio, dal petrolio al gas, dal gas all’elettricità, inseguendo una chiarità che snidasse sin l’ultima particella d’ombra”, scrive Tanizaki in quel bellissimo trattato estetico, Libro d’ombra.
La questione è contorta, perché l’Occidente non è l’insegna al neon del burgerificio americano. Gli dèi sono ‘meridiani’, Dio appare in uno sfolgorio di luce, è analogo al tuono e al fuoco; però il poeta, Orfeo, deve scendere in Ade – il luogo dove non si vede, le fauci dell’ombra – per deporre il canto nel grembo di Euridice; d’altronde, ci si ripara all’ombra della preghiera, che si pratica in solitudine, in luoghi isolati – la luce si accompagna, spesso, alla folla, alla chiarità del successo – spesso di notte. La preghiera è parola che fiamma nella notte.