Omaggio a LeoncavalloA 100 anni dalla scomparsa, Sassari omaggia Leoncavallo con Pagliacci

L’Ente concerti “Marialisa de Carolis” di Sassari mette in scena venerdì 18 e domenica 20 ottobre Pagliacci, l‘opera più nota del compositore napoletano, autore anche del libretto

In occasione del centesimo anniversario della scomparsa di Ruggero Leoncavallo, l’Ente concerti “Marialisa de Carolis” di Sassari mette in scena venerdì 18 e domenica 20 ottobre Pagliacci, l‘opera più nota del compositore napoletano, autore anche del libretto. L’allestimento originale, firmato dai registi Paolo Gavazzeni e Piero Maranghi, è il risultato dell’incontro tra l’Ente concerti, che da oltre settant’anni cura la Stagione lirica sassarese, e l’Accademia di Belle Arti cittadina. Scene e costumi sono infatti stati ideati e realizzati dagli allievi dell’Accademia, intitolata al pittore Mario Sironi. Proprio di Sironi, come di Giorgio De Chirico, era coevo Felice Casorati ai cui dipinti si sono ispirati gli artisti per le scene. I tre si distinsero anche per l’attività, meno conosciuta, di scenografi teatrali. Sassari, inoltre, è un punto comune tra Sironi e Casorati: il primo vi nacque, restandoci soltanto un anno; il secondo, invece, trascorse cinque anni in città, al seguito della famiglia, dal 1890 al 1895.

Pagliacci, presentato senza il classico affiancamento con altre opere veriste, per dare maggior risalto al capolavoro di Leoncavallo, torna a Sassari a 13 anni dall’ultima esecuzione. La firma di Paolo Gavazzeni e Piero Maranghi, già in città nel 2018 per la regia di Rigoletto, trasmesso anche sul canale satellitare Classica HD del bouquet di Sky. Sebastiano Rolli dirige Orchestra e Coro dell’Ente Concerti “Marialisa de Carolis”, quest’ultimo preparato da Antonio Costa, e il coro delle voci bianche dell’Associazione corale “Canepa” istruito da Salvatore Rizzu. La regia è di Paolo Gavazzeni e Piero Maranghi, il disegno luci di Tony Grandi.

Nel cast figurano Antonello Palombi (Canio), Marta Torbidoni (Nedda), Stefano Meo (Tonio), Zoltán Nagy (Silvio), Marco Puggioni (Peppe), Fabrizio Mangatia (Primo contadino), Claudio Deledda (Secondo contadino).

Nel prologo dello spettacolo i due registi hanno voluto ricordare l’episodio cui l’autore si ispirò per il soggetto dell’opera: l’assassinio del ventenne Gaetano Scavello, il quale pare sia stato il tutore del giovane Leoncavallo, per mano del garzone Luigi D’Alessandro

Nel prologo dello spettacolo i due registi hanno voluto ricordare l’episodio cui l’autore si ispirò per il soggetto dell’opera: l’assassinio del ventenne Gaetano Scavello, il quale pare sia stato il tutore del giovane Leoncavallo, per mano del garzone Luigi D’Alessandro. All’omicidio, scatenato da motivi di gelosia – i due erano infatti invaghiti della stessa donna – pare assistette lo stesso Leoncavallo e che il padre Giudice a Montalto Uffugo ne segui il processo come dimostrano i documenti e che aggiunse più tardi alla vicenda anche la presenza, in realtà mai esistita, di un pagliaccio e l’omicidio di una donna.

Ma quanta verità c’è nell’opera di Leoncavallo? La storia può essere ricostruita attraverso gli atti del processo, custoditi all’Archivio di Stato del Tribunale civile e penale di Cosenza. Risale all’anno 1865, nel “giorno cinque del mese di Marzo in Montalto” la testimonianza di due carabinieri intervenuti sul luogo del delitto, Tommaso Giubbilini e Pasquale Ginieri Conte III, raccolta dal giudice Vincenzo Leoncavallo, padre di Ruggero, giudice presso la giudicatura mandamentale di Montalto. Secondo i documenti, il giorno precedente al suo omicidio Gaetano Scavello, un giovane del luogo che pare sia stato tutore del giovane Ruggero, stava passeggiando per i viottoli della campagna di Montalto Uffugo; arrivato alla fontana detta “del somaro” incontrò una donna in compagnia del domestico dei fratelli Luigi e Giovanni D’Alessandro, due calzolai del luogo.

Scavello si avvicinò alla donna chiedendole di accompagnarlo, ma lei rifiutò l’invito e proseguì la sua strada con il domestico dei D’Alessandro. Gaetano Scavello, forse amareggiato o magari interessato, li pedinò fino a vederli entrare in un casolare. Restò a sorvegliarli fino a quando la donna e il ragazzo uscirono dalla torre di campagna, quindi si avvicinò e cominciò ad interrogarli e importunarli, fino a colpire il domestico con un ramo di gelso. Tornato dai suoi padroni, il giovane riferì quanto accaduto, provocando l’irritazione dei fratelli D’Alessandro che presero il gesto di Gaetano come un’offesa personale: armati di coltello lasciarono la bottega cercando di raggiungere Scavello, che riuscì però a fuggire. «Non importa – gli dissero contro –, non ci sei incappato adesso ma c’incapperai certamente appresso, domani, dopodomani, quando potrà succedere».

Leoncavallo racchiude l’antefatto nel primo atto dell’opera, ma è il giorno seguente che il delitto si compie. Scavello va incontro al suo destino all’uscita di un teatro, sulla stessa scena dell’omicidio di Silvio e Nedda. Un altro testimone del processo, Pietro Mirenna, racconta che la sera del 5 marzo «mentre egli stava presso la porta del teatro vide entrare in esso e quando l’opera stava per terminarsi i germani D’Alessandro».

Dagli atti si chiarisce quanto accadde: i fratelli D’Alessandro decisero di aspettare Gaetano Scavello davanti alla porta del teatro, con l’intenzione di aggredirlo, come racconta il giovane servitore dei D’Alessandro che attendeva davanti all’ingresso

Dagli atti si chiarisce quanto accadde: i fratelli D’Alessandro decisero di aspettare Gaetano Scavello davanti alla porta del teatro, con l’intenzione di aggredirlo, come racconta il giovane servitore dei D’Alessandro che attendeva davanti all’ingresso. Lo spettacolo intanto era iniziato, quando un suo compaesano gli chiese come mai non fosse entrato anche lui con gli altri: “Sono rimasto fuori – rispose il domestico – per aiutare i miei padroni, perché dopo che sarà finito lo spettacolo vogliono rifarsi con Gaetano Scavello, vogliono riversargli dei colpi di coltello ed io interverrò per impedirlo”.

Finito lo spettacolo, quando il pubblico si era ormai allontanato, i fratelli D’Alessandro attesero che Scavello rimanesse solo e lo aggredirono. Proprio in quel momento un tale Pasquale Lucchetta, che si era trattenuto nella sala dello spettacolo, fu testimone oculare dell’aggressione: vide Luigi D’Alessandro colpire alla testa il giovane con un coltello inglese da calzolaio mentre il fratello Giovanni lo feriva all’addome. Gli assassini pensarono che Scavello fosse morto e fuggirono. Gaetano morì il giorno seguente alle due di notte.

La vicenda giudiziaria si concluse così come è scritto negli atti:

Il Procuratore Generale del Re presso la Corte di Appello delle Calabrie, per grazia di Dio e per volontà della Nazione e del Re D’Italia condanna Giovanni D’Alessandro alla pena dei lavori forzati a vita e Luigi D’Alessandro alla pena dei lavori forzati per anni ventisei.

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