In nome della memoriaPrigioniero a Caporetto, si salvò da Auschwitz e trasformò la città di Milano: chi fu Alessandro Rimini, l’architetto dalle mille vite

Conobbe la prigionia durante la Prima Guerra Mondiale e, da ebreo, le durezze delle leggi razziali negli anni ’30. Per poco non finì in Polonia. Non denunciò mai chi lo consegnò alle SS, ma si dedicò a costruire teatri e grattacieli, disegnando il volto del capoluogo lombardo

Pochi lo ricordano, eppure progettò e costruì nel 1937 il primo grattacielo di Milano, la torre San Babila (o Snia Viscosa). Opera sua è anche il Cinema Astra, in Corso Vittorio Emanuele. E il teatro Smeraldo, l’Hotel Diana in Porta Venezia, o l’Auditorium in piazza Mahler, solo per citare alcuni dei suoi progetti più importanti. Alessandro Rimini è stato senza dubbio uno degli architetti più importanti della città (ma lavorò anche a Napoli: l’ospedale Cardarelli è una sua creatura).

Ma fu anche un uomo dalla vita rocambolesca e difficile: giovanissimo, venne mandato soldato al fronte durante la Prima Guerra Mondiale. Catturato a Caporetto, fu imprigionato in Germania (ma riuscì a fuggire). Sotto il regime fascista, in quanto ebreo, fu colpito dalle leggi razziali: non poteva firmare i progetti – altri lo facevano al posto suo e alcuni ne approfittarono per appropriarsi dei suoi lavori, facendo carriera. Nel 1944 fu arrestato dalle SS mentre lavorava al cantiere del Diana. «Era il 21 marzo 1944», racconta la figlia Liliana Rimini, che ritrova la data nelle pagine del suo vecchio diario.

Quel giorno lei si trovava in campagna, in una fattoria a Roverbella, vicino a Mantova. «Una tenuta agricola che mio padre aveva acquistato dopo l’arrivo delle leggi razziali». Da uomo avveduto «aveva trovato un posto in cui potessimo mangiare e trovare rifugio dai bombardamenti». Intanto lui per sei anni aveva continuato a lavorare nei cantieri a Milano, «ne aveva almeno 10», andando su e giù tra la città e la campagna. La Metro Goldwyn Mayer, per cui aveva lavorato, gli aveva anche proposto di trasferirsi negli Stati Uniti, ma aveva rifiutato per restare con la famiglia.

Poi arrivò la delazione. «Mio padre non ha mai voluto vendicarsi. Né ha mai rivelato chi fosse stato, altrimenti mia madre – non scherzava – l’avrebbe uccisa». Uccisa, dice. Con la a. Fu una donna? «Ci sono voci che sia stata un’architetto donna, per qualche tipo di rivalità professionale». Ma non si sa e non si saprà mai. Riprende a leggere il diario: «”Spero che non lo portino in Polonia, altrimenti temo di non vederlo più davvero”». A indicare che, già allora, qualcosa si sapeva.

Alessandro Rimini rimase un mese a San Vittore, dove fu pestato e torturato dai tedeschi. Volevano sapere dove fosse la famiglia. Lui non lo rivelò mai. Gli spaccarono i denti. Poi venne mandato al campo di concentramento di Fossoli, vicino a Carpi. Da lì inviava lettere alla moglie, si sincerava che tutti stessero bene e riferiva consigli per il lavoro agricolo, preoccupato che non riuscisse a condurre i lavori e organizzare l’attività dei contadini. «Erano terribili», ricorda Liliana. Due volte lei e la madre erano andate a trovarlo, percorrendo in bicicletta la lunga strada che separava Carpi da Roverbella, con a bordo una valigia per portargli vestiti e cibo. Si poteva fare? «Gli altri comunicavano urlando lungo il muro. Mia madre, invece, riuscì a passare».

LA PRIMA GUERRA MONDIALE

Non era la prima volta che Rimini veniva detenuto in un campo di concentramento. Era già successo più di 15 anni prima, durante la Prima Guerra Mondiale. In quel caso – aveva 20 anni ed era ancora all’università, a studiare Belle Arti a Venezia – fu fatto soldato all’improvviso: preso durante una manifestazione, venne arruolato e mandato a combattere al fronte. «Non ebbe nemmeno il tempo di dirlo ai genitori». Era il 1917. Durante la disfatta di Caporetto, con l’esercito in rotta, si «nascose in una trincea, sotto un cumulo di scarpe di soldati morti». Ma non ebbe fortuna. Fu portato a Munster, prigioniero dei tedeschi, a lavorare in una miniera di carbone.

«Fu durissimo. Un episodio che raccontava spesso era questo: durante la marcia verso la Germania, incolonnato con gli altri soldati, vide per terra una radice. Si chinò per raccoglierla e si trovò puntato, accanto a lui, un fucile. Era un soldato tedesco, che gliela rubò». In quel mondo di fame nera, dove si faticava e non si mangiava, in cui i pacchi mandati dall’Italia non arrivavano mai («gli italiani erano considerati dei traditori»), lui «riuscì a salvarsi grazie alla sua arte». Cioè grazie ai ritratti, bellissimi, che faceva ai suoi compagni di prigionia, «gente terribile. Alcuni – erano russi – si facevano mandare il profumo per berlo».

Fu per queste sue abilità che ebbe, come racconta in alcune lettere, «incarichi più leggeri» e soprattutto la possiiblità di girare per il campo. «Mio padre, in tutto quel tempo, aveva sempre pensato a una cosa sola: trovare il modo per fuggire da lì». Ci riuscirà. A piedi, grazie a una mappa ricostruita e disegnata da lui (Liliana la mostra: da buon architetto, è fatta con estrema precisione), raggiunse l’Olanda, dove trovò rifugio in un altro campo di concentramento – ma non era prigioniero. In una cittadina che, nelle lettere ai familiari, descrive come “graziosissima, di una pulizia che stupisce e con abitanti con una cortesia che confonde”. «Mio padre non perdeva mai il buonumore. Nemmeno in circostanze terribili come quelle. In più non voleva allarmare sua madre». Nonostante le difficoltà, «aveva un grande slancio vitale. Di fronte alle tragedie si imponeva la sua volontà, fortissima, di non morire». La stessa che lo salvò, nel 1944, da Auschwitz.

SULLA VIA PER AUSCHWITZ

Dopo la prigionia a Fossoli, venne caricato su un treno con altri prigionieri. La destinazione era proprio quella temuta: la Polonia. Rimini lo intuisce quando il convoglio si ferma a Verona, zona che conosceva bene perché dista solo 23 chilometri da Roverbella. «Riconosce la stazione. Capisce che deve agire in fretta. Con insistenza chiede di scendere, forse inventando un malore, o per andare in bagno. Lo accompagnano giù dal treno e lo portano in una palazzina, al terzo piano. Era troppo alto: da lì non poteva buttarsi da una finestra e fuggire, come aveva pensato di fare. Deve escogitare qualcos’altro. Tornando nel treno nota che il suo vagone era l’ultimo attaccato a quello, di scorta, dei soldati tedeschi. E allora agisce». Con una certa audacia, imposta un portamento sicuro e (forse) avvolge qualcosa intorno al braccio («Questo lo diceva mio zio, a me non lo ha mai detto»). Deciso, entra nel vagone dei tedeschi, che stavano chiacchierando con i fucili in mano. «”Italienische Polizei”, dice. I soldati, stupiti e ingannati dalla sua sicurezza, non fanno nulla. Lo lasciano passare. Poi, sceso dal treno, afferra il cappello di un capotreno – lui aveva capito tutto, ma non fa nulla per ostacolarlo – e si camuffa. Poi si nasconde dietro a un treno, aspetta la notte».

Il ritorno a casa non è semplice. A piedi, raggiunge al buio Roverbella. Ma prima di incontrare la sua famiglia, si nasconde in una canaletta, per evitare di farsi riconoscere dai contadini. «Era pericoloso. Potevano sempre denunciarlo». A quei tempi, ricorda Liliana, la loro condizione di ebrei li esponeva all’avidità degli approfittatori. «Per avere del cibo, dello zucchero, della farina, potevano arrivare a chiedere qualsiasi cosa: un quadro in cambio di qualche patata (e mio padre era un raffinato collezionista), per esempio». Quando Alessandro Rimini arrivò a casa, era irriconoscibile: stanco, magro, con i denti distrutti e sporco di fango. «Il nostro cane lo riconobbe subito. E gli corse incontro per fargli le feste».

In tasca portava però un foglio. «Quando sul treno a Verona decise di fuggire, lo disse prima alle persone che erano con lui. “A costo di morire, io ci provo”. Gli chiesero allora di prendere nota dei loro nomi. Se si fosse salvato, avrebbe potuto riferire alle famiglie che erano stati catturati e deportati». Liliana lo mostra. A matita, sono segnati circa cinquanta nomi, anche di più. «Di tutti questi, l’unico che è tornato vivo dal lager è un lettone».

LA LIBERAZIONE

Tornato a Milano, si nascose in un edificio colpito dai bombardamenti in via Novelli. Assunse una identità falsa, quella di Guido Lara, e restò nascosto, «lavorando e dipingendo di continuo per procurarsi da mangiare» fino alla Liberazione. «Quel giorno eravamo anche noi a Milano. Gli avevamo portato da mangiare. E assistemmo, da vicino, a uno scontro a fuoco tra i tedeschi, arroccati nella sede dell’Aeronautica, li vicino, e i partigiani». Ma la guerra ormai era finita, il regime fascista crollato da tempo. Era tempo di tornare alla libertà.

«Mio padre non volle mai vendicarsi. Con nessuno, neppure con la persona che sospettava avesse fatto la delazione. Non aveva voluto denunciare nemmeno quelli che si erano appropriati dei suoi progetti. Non dico che avesse perdonato, ma voleva solo tornare a lavorare e, come tanti altri, lasciarsi alle spalle quello che era accaduto».

IL BALLO IN MASCHERA

I ricordi volano, si appoggiano a fotografie, immagini – la finta carta di identità, gli scatti dal fronte, i ritratti fatti a Munster – e tornano a ricostruire episodi di una vita intrecciati agli eventi del secolo. Come l’incontro con la madre di Liliana, Olga. «Avvenne durante un ballo in maschera, a Trieste». Dopo la guerra, nel 1921, Rimini era stato mandato alla soprintendenza della città giuliana. «Era giovane, sveglio, architetto: aveva attirato l’interesse delle famiglie degli ebrei della città, che volevano presentargli le figlie». Una di queste, dei Cosulich, ebbe la meglio sulle altre. Ma arrivò il ballo. «Mio padre ballò tutta la sera con mia madre, mascherata come tutti. Era convinto che fosse la Cosulich. Poi a mezzanotte tutti si tolsero il travestimento. Fu una sorpresa immensa». Non solo era un’altra ragazza: era anche bellissima. «Si innamorò subito». Anzi, «la amò tutta la vita», tanto da sposarla, anche andando contro la ritrosia delle famiglie (lei cattolica, lui ebreo: la cosa non piaceva) e, soprattutto, da trasformarla nella “firma” delle sue architetture. Ancora oggi la si può vedere, dipinta o scolpita: c’è, en deshabillé, sugli ascensori della torre di San Babila, o nei mascheroni della facciata del cinema Colosseo in viale Montenero, e nel negozio di Zara in via Vittorio Emanuele (ex cinema Astra), dipinta sulle pareti.

Il segno lasciato da Rimini su Milano è grande. E anche se la città è una realtà che guarda avanti, ha il dovere di celebrare il suo passato. «Anche questa è una questione di memoria. E contando che si tratta di una persona che per anni ha dovuto far firmare ad altri i suoi progetti, è ancora più importante recuperarla». Forse succederà: c’è l’impegno, per la Settimana dell’architettura 2020, di dedicare una giornata proprio ad Alessandro Rimini. «Speriamo», dice, «che si realizzi». Liliana ha lottato tanto per ripristinare il ricordo del padre e rendere onore al suo lavoro. Anche in modo simbolico: ha ottenuto, per esempio, la targa che ora campeggia alla base della torre di San Babila.

È un modo per non dimenticare una persona che ha fatto tanto per la città, che ha vissuto una vita unica, conoscendo le sofferenze della guerra e della privazione. In questi tempi in cui l’allarme per l’antisemitismo è tornato a farsi sentire, («anche purtroppo con qualche strumentalizzazione: per queste cose serve sempre sensibilità e delicatezza») certe storie devono rimanere vive.

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter