Il 5 febbraio 1981 si tenne una riunione della Direzione del Pci, di quelle “molto vivaci”. Si discuteva soprattutto del giudizio sul Psi di Bettino Craxi. La relazione di Enrico Berlinguer, ispirata dal suo gran consigliere Franco Rodano, fu estremamente severa. Ma nel dibattito esponenti di peso come Lama, Napolitano, Chiaromonte, Pajetta, Cervetti, persino Reichlin assunsero una posizione molto più aperta, tanto che Alessandro Natta, prima delle conclusioni del segretario, dovette constatare: «Non siamo d’accordo sull’analisi del Psi e quindi non siamo in grado di concludere». L’episodio è citato dal compianto Pierre Carniti in un libro di sue memorie uscito di recente (Passato prossimo, 2019, Castelvecchi). La storia è nota. In quel frangente Berlinguer avrebbe dovuto dimostrare interesse verso l’ipotesi di un governo a guida socialista (è la tesi di Claudia Mancina in Berlinguer in questione, 2014, Laterza – forse il saggio più stimolante sulla figura del leader comunista).
Era – sottolineiamolo ancora – il 5 febbraio 1981. 39 anni dopo siamo ancora lì. Divisi su Craxi. Certamente gli eredi del Pci, specie alcuni (Fassino, Veltroni) hanno fatto molti passi in avanti nel senso di un esame più equilibrato della complessa figura del leader socialista: eppure, i conti ancora non tornano.
Ma l’occasione del ventennale della sua morte potrebbe essere propizia ad un ulteriore approfondimento (di cui però al momento non si scorge traccia) anche se per l’attuale sinistra italiana pare sempre così faticoso giungere ad un giudizio politico sul craxismo svincolato dalle tare polemiche del passato e dalle ansie morali o moralistiche sul personaggio.
Qualcuno prova a smuovere le acque. Per esempio, alcuni esponenti socialisti calabresi con una lettera aperta invitano Nicola Zingaretti a organizzare una delegazione del Pd da inviare ad Hammamet il 19 gennaio per il ventennale della morte del leader del Psi. «Siamo eredi di valori – si legge – che ci portano a lottare insieme, sotto il simbolo del Partito Democratico come unica casa riformista e di sinistra, per la difesa dei meriti e dei bisogni, della equità sociale». Nel merito, effettivamente, il “riformismo leggero” di Craxi, al di là dei passaggi politici mediante i quali egli pensava di attuarlo, contiene molte aspirazioni proprie di quel Pd che nascerà tanti anni dopo (dalle riforme istituzionali a un nuovo welfare meno burocratico è più attento a merito e bisogni). Cosa farà Zingaretti? Il Pd renderà omaggio, sul suolo tunisino, al capo socialista? E più in generale, verrà scritta qualche parola definitiva su quel pezzo così importante della recente storia italiana? Si vedrà presto.
Ma insomma – per farla semplice, e banalizzare un po’ – la domanda è sempre quella: Bettino Craxi fu “un compagno” o no? Uno che certo non è imputabile di filo-socialismo come Massimo D’Alema disse che «Craxi, aldilà delle sue discutibili scelte e delle responsabilità che si assunse, era un uomo di sinistra» (Controcorrente, 2013, Laterza) e nel 2009 fu Walter Veltroni a dire che «Craxi interpretò meglio di ogni altro uomo politico come la società italiana stava cambiando» e che la sua politica estera «fu grande: ci fu l’episodio di Sigonella ma anche la scelta di tenere l’Italia nella sfera occidentale, senza intaccare autonomia e dignità del Paese».
Ma il primo che con chiarezza ruppe il grande tabù fu Piero Fassino nel 2007 inserendolo in una immaginario Pantheon della sinistra insieme a socialisti del calibro di Rosselli, Matteotti, Nenni e Pertini. E tuttavia, malgrado lo sforzo di tanti “miglioristi” vicini a Giorgio Napolitano, non esiste agli atti una vera e propria riabilitazione politica di Bettino che, se compiuta, avrebbe implicato, e implicherebbe ancor oggi, una valanga di autocritiche sulla linea del Pci berlingueriano.
Il nodo nel quale tuttora gli eredi del Pci (Zingaretti e gran parte del gruppo dirigente attuale del Pd vengono da lì) sono imbrigliati ci pare infatti soprattutto questo: dire apertamente che Berlinguer ebbe torto. Anche quando si sfiora la critica al segretario comunista appunto, la si sfiora, vi si allude, ma non la si squaderna. Perché il “baco” è tutto lì, nelle famose note preparate dal segretario di Berlinguer Tonino Tatò, gran galantuomo peraltro, già nel 1978: «Craxi è un bandito di alto livello (…), uno dei più micidiali propagatori dei due morbi che stanno avvelenando la sinistra italiana – l’irrazionalismo e l’opportunismo – che il maggiore partito della sinistra italiana ha il dovere di combattere e debellare». (Antonio Tatò, Caro Berlinguer, 2003, Einaudi). Con queste premesse, fra alti e bassi, il momento di massimo riavvicinamento fra Pci e Psi l’incontro alle Frattocchie del marzo 1983, fu un’illusione: Berlinguer e Craxi parlavano due lingue diverse. Chi scrive non dimenticherà mai quando, pochi giorni dopo quel summit, chiedendo a Maurizio Ferrara (il padre di Giuliano), prestigioso esponente comunista, perché dopo Frattocchie non si fosse mosso niente, ottenne la fulminante risposta in romanesco: «Craxi? S’è magnato la frattocchie…». E Ferrara era considerato un filo-socialista. Figuriamoci gli altri. Poi vennero Tangentopoli e le monetine a spazzar via tutto, a cancellare ogni memoria di quello che avrebbe potuto essere e non fu mai.