C’è un carattere che stupisce più di tutti: la perseverante sopportazione di Silvio Berlusconi di fronte al dolore. Quel dolore che come in un vecchio e stanco animale domestico ha avvolto Forza Italia nel suo etereo fine vita, mettendo il Cavaliere dinanzi alla prova di forza finale, quella della soppressione. Proprio così, uno dei partiti mattatore degli ultimi vent’anni della scena politica italiana è nelle secche più amare, alle prese con un salasso della classe dirigente e l’ombra (ancora scialba) di una crisi di governo che trancerebbe i seggi azzurri. Niente di nuovo: un’eutanasia lunga e sofferente, che ha avuto inizio proprio quando al quartier generale non è filtrata l’immagine di un establishment, di una democrazia, di una rappresentatività obsoleta, frutto di un gruppo di decisori, molto vicini al Cav, non eletti e con ruoli non politici. Ma quali disastri devono ancora consumarsi affinché l’ex premier ammetta la disgregazione del partito?
I big forzisti più vicini ad Arcore, sicuri fino a qualche mese fa dell’immobilismo del leader, hanno aggiustato la versione: «Berlusconi e i suoi fedelissimi non riescono a trovare una quadra. Non riescono a trovare una figura che riesca a prendere le redini del partito». Il passo indietro del Cav, quindi, si sta delineando nella forma più soft, seguendo filo filo i dettami di una ricerca parallela del sostituto perfetto: ovvero, di una figura fresca, sulla scena politica da tempo e capace di fronte al grande pubblico. Il nome a denti stretti è quello di Giorgia Meloni, quello che serpeggia nei salotti milanesi (anticipato a ottobre da Linkiesta) è quello di Marco Bestetti. A frenare, però, la salita al trono del delfino meneghino sono i consiglieri del Cav, in particolare Licia Ronzulli e Anna Maria Bernini, in attesa di un nome di più esperienza e di una stabilizzazione del terremoto politico che sta segnando il centrodestra liberale.
Anche per questo, gli scenari che tessono il finale di trama di Forza Italia possono essere essenzialmente due. Il primo, nel caso del taglio dei parlamentari e l’eventuale scollamento dell’alleanza Pd-Cinque Stelle, vedrebbe le “furie” azzurre ridimensionate piuttosto a comparse occasionali, con un 70 per cento in meno che uscirebbe dal Parlamento. Il sondaggio Bidimedia di febbraio, infatti, vede il partito in calo dello 0,6 per cento, fermo al 5,6, così che le proiezioni del prossimo arco costituzionale conterebbero solamente 30 parlamentari forzisti contro i 170 di oggi. Il che per molti iscritti potrebbe essere una preoccupazione relativa, in quanto, una volta fuori, tornerebbero a vestire gli abiti del manager o dell’uomo di affari. La logica e il buon senso, allo stesso tempo, vorrebbero però da parte dei vertici una barricata strategica per evitare le urne e la frammentazione: ebbene, non è così: Berlusconi chiede a gran voce le elezioni anticipate, forse per chiudere del tutto l’agonia, forse per la poca lucidità che sta caratterizzando l’ultima versione della sua Forza Italia.
Per altri invece, e qui si apre anche il secondo e ultimo scenario, l’ipotesi di una chiusura anticipata della carriera politica ha instaurato quella paura che si chiama incertezza, mancanza di prospettive, assenza di speranze. E vuoto politico. Erranti nell’esiguo spazio liberale e moderato lasciato dalla concorrenza di Carlo Calenda e Matteo Renzi, i forzisti hanno scelto la via più facile per sopravvivere: quella della conversione. «Molti di noi che credono ancora nella buona destra sentono la necessità di rinnovamento. L’unico dubbio è quello di riuscire a capire se al momento è troppo tardi o troppo presto, rispettivamente per attraversare la frontiera e cambiare partito oppure rimanere tra le fila azzurre e sperare in una risanamento dall’interno».
Nomi e cognomi? I ribelli, senza troppe sorprese, sono chiari: senza contare i tessitori ad honorem Renata Polverini e Paolo Romani, al Senato, ad esempio, il forzista Antonio Saccone ha votato in dissenso al proprio gruppo ben 680 volte, Andrea Causin 374 volte, Gaetano Quagliariello 316 volte, Giancarlo Serafini 310 volte. E non va meglio sul fronte Camera dei Deputati, dove a spiccare sono sempre i forzisti: Stefania Prestigiacomo 145 voti ribelli, Enrico Costa 144, Sestino Giacomoni 133.
Mentre sul versante partitico, se prima il più ambito era il capo della Lega Matteo Salvini, a salire di quota nel toto leader è sempre più la rampante Giorgia Meloni, arrivata all’11 per cento negli ultimi sondaggi e forte di una sicurezza nata proprio sul terreno amico degli azzurri. Il partito della Meloni, il quale rimane un esempio del carattere torvo e conservatore della destra italiana, in Lombardia sta infatti sfruttando la situazione, oltre il punto critico, di Forza Italia e della creatura di Toti, quest’ultimo candidatosi senza successo con il suo Cambiamo! come rifugio sicuro per liberali e scontenti.
Nella Capitale morale del Cav non è bastata l’iniezione di fiducia dopo le elezioni in Calabria, così Mario Mantovani prima e Stefano Maullu poi – anche se con poca fortuna, più per motivi personali che per altro – hanno cambiato sponda, optando proprio per Fratelli d’Italia. Idem o quasi anche per il figlio d’arte Federico Romani (consigliere regionale in Lombardia) che, come il padre Paolo con le dovute carature, è entrato in rotta di collisione con il partito, dal quale, a differenza questa volta dell’ex ministro allo sviluppo economico nel Berlusconi IV, a sorpresa si è congedato per approdare al gruppo misto. Preludio, secondo fonti vicine all’ambiente, di un ulteriore passaggio imminente in Fratelli d’Italia.
L’ultima speranza, che all’unisono riempie la bocca dei big azzurri, si accende, tuttavia, quando si parla di governo tecnico. Congiunture astrali e incastri improbabili farebbero di Forza Italia il mastice per accordare Pd, Lega e Fratelli d’Italia sotto la persona di Mario Draghi. Illusioni? Forse, ma per gli azzurri è l’unica chimera in cui credere per rimanere attaccati a un treno che, da tempo, corre troppo forte.