Da quando è diventato presidente di Confindustria, Carlo Bonomi dà l’impressione di essere una vettura di formula 1 costretta a star dietro la safety car, con il motore che ruggisce ma con velocità e potenza compresse.
Deve essere una sofferenza, per l’ex presidente di Assolombarda, quello che tuonava contro la politica alla Scala di Milano tra uragani di applausi degli imprenditori, finalmente pronti a identificarsi con un leader che diceva quello che loro pensavano e però non dicevano in pubblico.
Era il Bonomi in corsa ascendente che entrava in scena con grande energia nel pieno della crisi di una politica ribaltata dagli elettori della protesta e pronto a sferzarla con un linguaggio puntuto e sarcastico. Tutto il contrario del suo predecessore Boccia, uomo di qualità e cultura, ma molto attento alle forme, rispettoso e sempre alla ricerca del consenso. Si passava dal minuetto al can can.
Ma, in quel momento, non c’era ancora il Covid, che obbliga a rispettare le priorità dell’emergenza, e soprattutto si esibiva sulla scena quel governo gialloverde che sembrava fatto apposta per essere bersaglio dell’Italia che lavora e produce. Forse il peggior governo della Repubblica, che aveva elevato a contratto le velleità elettoralistiche di due opposti populismi. Era il governo che sconfiggeva la povertà con l’assistenzialismo, che cambiava tutto per il gusto di cambiare, anche le cose buone per l’impresa di chi era venuto prima. Via il 4.0, via il jobs act, porte aperte a decreti contro il lavoro, ma denominati dignità. Un invito a nozze per un uomo nuovo della vita pubblica italiana. Tra tanti pigmei non un watusso, ma certo uno con le idee e soprattutto le parole chiare.
Quando però Carlo Bonomi è arrivato in viale dell’Astronomia lo scenario era tutto cambiato, salvo Conte in versione Zelig e dunque esempio luminoso per i progressisti alla Bettini. Blocco dei licenziamenti e cassa integrazione a gogò, pioggia di sussidi e bonus, aiuti a fondo perduto. E l’Europa che ti toglie il patto di stabilità, si volta dall’altra parte sugli aiuti di Stato, ha un occhio benevolente per l’Italia da quando è sparito Salvini.
Per Bonomi è stato davvero uno spiazzamento. Era arrivato per bombardare, ma le bombe a cui aveva pensato le avevano già tirate quelli della fortezza da abbattere. Era infatti cominciata la più straordinaria e sconosciuta stagione dei miliardi europei, sui quali addirittura fare gli schizzinosi, per paura dello “stigma”.
E poi, un ministro dello Sviluppo economico come Patuanelli. Caricato a pallettoni per mandare al diavolo il gilet giallo Di Maio, il giovanotto di Pomigliano che si era esaltato definendo «prenditori» gli imprenditori, Carlo Bonomi si è trovato invece davanti un Patuanelli che non conosce la demagogia, sembra un ufficialetto diligente dell’esercito asburgico, non dice bugie e soprattutto non spara promesse senza senso.
Uno che ha avuto il coraggio di dire che il blocco dei licenziamenti è una misura temporanea, perché in una situazione di mercato è un’anomalia. Nessuno ha avuto altrettanta schiettezza, eppure viene dal mondo del vaffa e del tutto è possibile se è stato promesso. Un’eccezione.
Ecco allora il Bonomi istituzionale e benedicente dell’Assemblea di settembre, in cui lo sforzo per stare nelle righe era molto evidente. Osservandolo bene, qualche sbuffo di vapore usciva da occhi e orecchi, disobbedendo alle raccomandazioni del suo staff, già stravolto da una frase molto bonomiana, sfuggita alla censura del Palazzo, e cioè che il «governo è peggio del Covid».
Ma definire il Paese di Conte & friends un “Sussidistan”, questo sì è riuscito a dirlo, ed è la prova che Bonomi è ancora una risorsa in un momento in cui il conformismo, con la scusa della pandemia, sussurra che questo governo non si può criticare perché non ha alternative. E quindi, zitti sul Mes, far finta di niente sul disastro della Giustizia, su Alitalia, Ilva e Atlantia.
L’altro giorno, all’Assemblea di Verona, dove le porte sono state chiuse al pubblico, perché non si sapeva bene cosa fare nell’interpretazione dell’ultimo dpcm, Bonomi non si è più trattenuto: «Paese in confusione», così il quotidiano rosa della casa ha sintetizzato il discorso del presidente.
Nel suo streaming abbiamo contato almeno una quindicina di critiche alle anticipazioni uscite sulla nuova legge di bilancio. Non si è salvato nulla: dalla scuola («quando una riforma seria?») al fisco, alle pensioni («continuiamo a rubare il futuro ai giovani»), al finto cuneo fiscale, al reddito di cittadinanza («bandiera politica»), alle decontribuzioni al Sud, anziché politiche di attrazione e legalità.
In un Paese in cui se arrivano 209 miliardi da Bruxelles il primo pensiero non è per le grandi priorità da individuare ma è per il rischio degli sprechi e delle infiltrazioni malavitose, uno come Bonomi, schiettezza e concretezza brianzola, può essere utile alla minoranza che non si rassegna.