Se il liberalismo fosse una giacchetta, sarebbe molto stropicciata, perché sta diventando un’abitudine tirarla da tutte le parti. Per riequilibrare la condanna del populismo, che forse sembrava forse un po’ troppo politica, l’ultima Enciclica papale se l’è presa anche con il liberalismo. Un colpo alla botte sovranista e un colpo all’individualismo e al mercato. Metà per uno non fa male. È l’eterna saggezza della Chiesa.
Se è lecito il paragone, che confessiamo un po’ ardito, anche Matteo Salvini parla di cose liberali. Nell’ultima intervista, per una volta tanto non in ginocchio (bravo Cesare Zapperi), ha auspicato addirittura una “rivoluzione liberale”, come strumento di rilancio della sua Lega, talmente liberale e pluralista che si chiama per Salvini Premier.
Sembra di capire che l’ex comunista padano, l’ex predicatore di Radio Padania, l’ex nemico dei napoletani voglia lanciare un appello all’Italia, come diceva una volta Berlusconi, «che lavora e che produce».
Quella stessa che gli è scappata un po’ di mano, e che – a forza di vederlo girare come un forsennato in Calabria, che rappresenta in Senato – lo ha abbandonato un po’ ovunque in Lombardia. Ultimi arrivati Legnano, città del Carroccio, Corsico e Lecco. Ma tutti i capoluoghi lombardi non si riconoscono da tempo nei “lumbard”. Ottimi Sindaci del Partito democratico lo hanno tenuto all’opposizione, spesso vincendo al primo turno, ovunque ci fosse la più simbolica rappresentanza dell’Italia che “lavora e produce”: Bergamo, Brescia, Varese, Mantova, Milano.
Ora, abbandonata la secessione che avrebbe fatto male all’economia del Nord più del Covid, rispolverato vagamente il federalismo per far contento Zaia, Salvini vorrebbe la rivoluzione liberale.
Ad ispirarlo sembra sia il recente approdo dalle parti della Lega di Marcello Pera, uno dei tanti che hanno abbandonato la nave di Forza Italia, solo perché – dopo averne tratto vantaggi e presidenze prestigiose – avevano perso il contatto con il centralino di Arcore. È capitato a molti, ultimamente a uno che alla presidenza del Senato non è arrivato, come Paolo Romani, vittima di congiure interne oggi più incisive e mortifere.
Marcello Pera si autodefinisce da qualche tempo liberale (dopo essere stato convintamente socialista, poi ateo devoto, poi intellettuale d’area, poi più nulla): liberale in verità non rivoluzionario perché in qualche momento di verità si è volentieri iscritto al versante conservatore. Comunque non crede più al mito del partito liberale di massa (e per forza, visto il declino elettorale di Forza Italia) e dunque guarda a Salvini. Visto che il carro ha rallentato la corsa, ha trovato utile saltarci su. Non sarà più un partito del 40%, ma insomma il centrodestra per ora ha una guida che sembra salda.
Ci attendiamo che Pera dia qualche buon consiglio al suo nuovo leader. Magari evitando, lui sedicente liberale, di andare nel Partito Popolare europeo versione Orban, cui Salvini si iscriverebbe di corsa. Per andare con la Merkel c’è ancora un po’ di tempo, ma non si sa mai.
Senza bisogno di tutor, una come Giorgia Meloni il problema del riconoscimento internazionale – che è la vera zavorra di Salvini – lo ha risolto brillantemente, diventando addirittura capa dei conservatori ora che i britannici se ne sono andati, evitando per un pelo il confronto con una post missina cresciuta in luoghi in cui ancora echeggiava l’anatema alla perfida Albione.
Ma così vanno le cose in Italia: l’ex costola della sinistra è talmente a destra che Salvini deve millantare telefonate confidenziali – dice lui – con le principali “cancellerie europee” (si scopre poi che si tratta dei polacchi e dei soliti ungheresi, che comunque lo tengono a distanza), per far dimenticare il patetico comizio in piazza del Duomo con la sfilata dei più improbabili leader della destra europea, nessuno dei quali poi entrato nel Parlamento europeo.
Avere Marcello Pera al proprio fianco è certamente un vantaggio per il leghista amico della Le Pen. Resta invece da capire cosa ci fa vicino al capitano uno che Popper lo ha studiato e divulgato in Italia.