«La cosa onesta che si deve fare nei riguardi d’un morto, se era uno scrittore, è leggere le sue opere … Di uno scrittore che è morto, è importante il meglio; il peggio va accantonato in disparte».
Così Natalia Ginzburg a proposito di Cesare Pavese quando nel 1990 Lorenzo Mondo pubblicò sulla Stampa di Torino gli appunti rinvenuti trent’anni prima nella casa torinese della sorella Maria Sini, con cui Pavese visse gli ultimi anni, e pubblicati da Nino Aragno in un volume titolato” Il taccuino segreto”, con l’illuminante curatela di Francesca Belviso, l’introduzione di Angelo D’Orsi, la nota dello stesso Mondo che ne ripercorre l’iter precedente la pubblicazione. In coda, prima dell’appendice documentale che riporta gli originali, una serie di articoli e commenti usciti a caldo, che allora generarono un ulteriore “putiferio mediatico”.
Perché?
Perché in trenta pagine manoscritte su un taccuino a quadretti, tra il ’42 e il ’43, lo stesso Pavese che anni dopo scrisse “Il compagno” e prese la tessera del Partito Comunista italiano, il Pavese amico di intellettuali antifascisti come Leone Ginzburg, Massimo Mila, Norberto Bobbio, l’allievo di liceo di Augusto Monti, crociano e antifascista, il Pavese accusato di antifascismo che scontò un anno di confino a Brancaleone Calabro, lo stesso che allo studente sedicenne Gaspare Pajetta, fratello di Giancarlo, insegnò che «ognuno deve ammazzare il suo tedesco», si mostrava accondiscendente verso la Repubblica Sociale, lamentava la litigiosità intestina degli antifascisti, difendeva la lezione di sacrificio e disciplina che arrivava dalla guerra, accoglieva persino il manifesto di Verona «purché fosse sincero».
Un Pavese, insomma, tentato più che abbindolato dal fascismo in disarmo che nonostante la sconfitta si sforzava di immaginare un futuro repubblicano possibile. Sono immagini estemporanee, guizzi di pensiero fissati su carta, sfoghi che non tradiscono una scaletta né lasciano pensare alla falsariga di un lavoro in divenire. Sono frasi in cui Pavese appare diverso dalla sua narrazione e dalle scelte rivendicate successivamente ma che, evidentemente, non ha voluto distruggere.
Su queste frasi, su questi appunti che sono privati per il solo fatto che l’autore stesso non li rese pubblici, a quarant’anni dalla morte si era scatenata una pubblica bagarre che aveva visto, da una parte, gli indignati, sbalorditi, feriti, dall’altra non già gli indulgenti ma coloro che provavano a capire e contestualizzare.
A Giancarlo Pajetta che gli dà del disertore risponde Carlo Muscetta in un’intervista di Pierluigi Battista dicendo che Pavese «non ha disertato perché non ha mai militato».
Ed è un po’ questa la linea che accomuna il pensiero di molti: quella di un Pavese non militante, laterale alla storia, affacciato a essa ma senza interferire con essa, un intellettuale a disagio, appartato non per snobismo o volontà ma per profonda incapacità di appartenere, uno scrittore, anzi un poeta, che demanda al racconto la sua reale esistenza. «Piovono bombe e tu pensi già a farne racconto», scrive proprio nel taccuino rimproverando se stesso: «Ti sembra bello correggere bozze e rivedere manoscritti mentre i tuoi compagni di scuola sono morti in mare, in terra, in cielo?».
Alessandro Galante Garrone, che sottolinea la contraddizione tra il desiderio sincero di capire e partecipare e l’angosciosa riluttanza a farlo, ricorda un episodio in Einaudi subito dopo la liberazione. Chiamati i presenti a dichiarare su un biglietto i propri orientamenti politici, ci fu chi scrisse PCI, chi PSIUP (Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, ndr), chi PdA (Partito d’Azione, ndr) o PLI (Partito liberale italiano). Pavese scrisse soltanto P: come poeta.
Allora chissà se aveva ragione Fernanda Pivano che, pur sbalordita, si domandava speranzosa se quelle pagine del Taccuino non fossero «meditazioni per definire meglio un personaggio. Magari il fascista Lucini di “La casa in collina”».
Più focosa la difesa di Franco Ferrarotti che si dichiarò indignato per il gossip da ombrellone a cui la notizia aveva dato la stura. E ricordò che Pavese scrisse «non fate pettegolezzi» perché «conosceva bene i suoi polli».
«Preferisco aver torto con lui che aver ragione con coloro che ne infangano obliquamente la memoria rovistando negli appunti intimi, mettendogli le mani nelle mutande». Giovane traduttore ingaggiato da Pavese ricorda ancora che quando Einaudi tardava a pagargli le rate delle traduzioni lui entrava in sciopero. «Aveva intuito la crisi dell’ideologia con mezzo secolo d’anticipo, aveva compreso la menzogna dell’ufficialità, le ragioni profonde della vita dell’uomo, che vanno al di là delle prese di posizione puramente politiche».
Sulla dimensione del dubbio, su un pensiero non univoco, incapace di prendere posizioni assolute, insiste anche Gianni Vattimo: «Le incertezze di giudizio sono cosa diversa dalla codardia». D’altra parte «se persino Pavese poteva pensare cose come quelle, doveva essere ben difficile avere le idee chiare sul fascismo e sul nazismo per chi viveva in quei tempi».
Il pregio di questo volume, che esce mentre Einaudi sta ripubblicandone l’opera (a fine 2020 scadono i diritti) non è solo quello di portare a conoscenza un Pavese taciuto, destabilizzante a una prima lettura, ma di farlo a polverone ormai dissipato.
Le testimonianze scelte non offrono il fianco a chi ha voluto o vorrebbe «fare strage della sua memoria», come scrisse Natalia Ginzburg quando il taccuino uscì sulla Stampa. Il tempo ha fatto chiarezza e nessuna revisione pare giusta o possibile.
Chi l’ha amato ritrova intatta la sua poetica fragilità, l’intellettuale curioso che scopriva e traduceva la letteratura americana, il conoscitore del filosofo Friedrich Nietzsche e de “La nascita della tragedia” che forse racconta meglio di qualunque esegesi i tormenti e le contraddizioni di un’anima che cerca nella forma e nel rigore una via di salvezza.