Grandi città, piccoli centriL’Italia sta diventando una nazione arcipelago, ma il digitale può mitigare gli squilibri

La tendenza attuale conferma una forte polarizzazione del lavoro e l’aumento del divario fra metropoli e provincia. Un’occasione per invertire questa tendenza ci viene data dal Next Generation Eu

AFP PHOTO/ GIUSEPPE CACACE GIUSEPPE CACACE / AFP

Le infografiche e le mappe sono sempre più di moda, sempre più utilizzate, e del resto per fare comprendere in modo semplice i trend sono molto utili. Per capire quello che sta succedendo allo sviluppo economico europeo e italiano basterebbe mostrare una cartina con i principali indicatori, dal reddito all’occupazione della nostra Penisola e del nostro Continente, e sarebbe subito evidente, come al posto della cosiddetta banana blu, che andava a fine anni ’80, dalla Lombardia a Londra correndo lungo il Reno e attraversando il Mare del Nord nei pressi del Benelux, o del triangolo industriale del Nordovest, avremmo una sorta di arcipelago.

Un insieme di isole formate dalle grandi città, Milano, Madrid, Monaco, Londra, Parigi, con l’immediato hinterland, che sono in un rapporto sempre più stretto di interdipendenza, che si sviluppano, attirano investimenti, aziende, lavoratori a spese dell’oceano che le separa, la provincia, anche quella, “una volta”, in fondo, produttiva, benestante, costellata di piccole imprese.

Siamo nel secolo delle città, si è detto, e la pandemia, se veramente sarà una parentesi destinata a esaurirsi entro un anno, non cambierà più questa tendenza. Il “southworking” sarà per pochi, il telelavoro, più fattibile, potrà, a determinate condizioni, portare le persone ad abitare qualche fermata più in là dall’ufficio, maggiormente nel verde, allargando le isole a dimensioni simili a quelle degli infiniti suburbia americani, ma le ragioni che hanno portato a questo trend strutturale appaiono immutate.

É del resto è in atto ovunque, e persino in Italia, dove i trend arrivano dopo. Nel 2019, prima del ciclone Covid, era evidente come l’aumento dell’occupazione degli ultimi 15 anni a Milano e Città Metropolitana fosse stato decisamente superiore non solo a quello verificatosi in Italia: +4,7% il tasso d’occupazione contro il +1,7% nazionale, ma anche a quello del solo Nord Italia, +2,9%. E si tratta di un divario evidente già negli anni 2000, prima ancora che economisti e giornalisti se ne accorgessero in massa, si era affievolito con la crisi, ed è poi ridiventato netto con la ripresa. Intendiamoci, Milano segue il trend nazionale, che del resto il dato milanese, include, ma a un livello più alto.

Fonte: ISTAT

Tanto che Milano con un tasso di occupazione del 70,6% è arrivata l’anno scorso a livelli tedeschi, sempre più distanti da quelli italiani, che non hanno mai superato il 59%. Nel 2004 la differenza tra i due dati era minore, 65,9% a 57,6%.

Qualcuno potrebbe pensare che in fondo si tratta della solita eccezione milanese, del capoluogo lombardo unica metropoli europea italiana che si distingue, ma non è così, non del tutto almeno. La stessa tendenza la ritroviamo anche in altre città e province corrispondenti, almeno quando il capoluogo supera i 200-300mila abitanti. Un altro esempio è Firenze. Qui pure l’occupazione è cresciuta rispetto ai livelli nazionali, più che nel resto del Centro, e anche che nel resto della Toscana, agli stessi ritmi milanesi.

Fonte: ISTAT

La ragione è nota, l’economia è sempre più trainata dai servizi, in particolare quelli avanzati, dalle grandi imprese multinazionali che possono e devono permettersi uffici nelle grandi città e dintorni, che interagiscono con altre aziende clienti e fornitrici che per questo motivo si concentrano nei grandi centri urbani, non essendoci la necessità di larghi capannoni, e di trovarsi in prossimità delle arterie stradali (fatta eccezione per le realtà della logistica) come le imprese manifatturiere.

Questo trend naturalmente attira lavoratori: è ripresa l’immigrazione interna che non interessa più classicamente la direttrice Sud-Nord, ma anche quella provincia-città, con la aree più lontane dai capoluoghi che si spopolano, anche al Nord, si veda la Lomellina o l’Oltrepò pavese. Tra il 2014 e il 2020 gli abitanti di Milano e Città Metropolitana sono cresciuti del 3,3%, in soli sei anni, mentre in tutto il Nordovest vi è stata calma piatta.

Idem in Emilia e nel Nordest, dove le province delle due città maggiori, Verona e Bologna, hanno visto un incremento della popolazione del 0,9% e 1,1%, a confronto di un misero +0,1% di tutto il Nordest. Persino dove il calo demografico è già evidente, come al Centro, questo colpisce meno le province di Firenze e Roma, anche qui i due centri più importanti della macro-regione.

Fonte: ISTAT

E c’è un particolare che forse è il più importante e significativo, ed è che questa tendenza alla concentrazione nelle aree urbane interessa soprattutto la fascia di età più cruciale, quella tra i 25 e i 34 anni, ovvero quella in cui si avvia una carriera e/o una famiglia. È in questo segmento che il trend del Nord Italia e quello del milanese per esempio più differiscono. Un trend con il segno meno, è vero, perché rispetto agli anni 2000 è cresciuto il lavoro solo per gli over 45, ovunque, ma con un segno meno più piccolo a Milano per il 30enni, -3,5% il tasso d’occupazione, contro il -6,6% che ha interessato il Nord e il -7,5% italiano.

Fonte: ISTAT

Questa polarizzazione del lavoro, della popolazione e della vita, proseguirà con i problemi ambientali, infrastrutturali, e sociali che si porta dietro, assieme alla marginalizzazione della provincia. C’è una grande occasione ora per mitigarli, per fare in modo che almeno in parte lavoratori ma soprattutto imprese possano distribuirsi in modo almeno più equo sul territorio. Anche senza immaginare l’impiegato che invia email da Tenerife o da Gallipoli, si tratta del processo di sempre maggiore digitalizzazione del lavoro, che la pandemia sta rendendo necessaria, e che va sostenuta approfittando del Next Generation Eu, specificatamente mirato anche a questo scopo.

L’Italia è da sempre un po’ allergica alla tecnologia, ma non si tratta ora solo di una convenienza privata, delle imprese, è un’esigenza che diventa bene comune, come si usa dire, s’incrocia con la lotta alle disuguaglianze e agli squilibri che una tale polarizzazione inevitabilmente inacerbisce. Forse ancora una volta dovremo aggrapparci al “vincolo esterno” europeo, allo stimolo che da Bruxelles arriverà a una governance altrimenti da sola piuttosto assente e recalcitrante in questi temi.

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