Tratto dall’Accademia della Crusca
Sono arrivate in redazione varie domande, sia da Nord (Torino, Milano), sia da Sud (Salerno, Acquaviva delle Fonti – BA), che ci chiedono se il noto agrume debba essere chiamato mandarino o non piuttosto manderino e se c’è differenza tra le due varianti.
Risposta
La forma oggi di gran lunga più diffusa è mandarino, sia che si riferisca all’agrume (o all’albero, oppure al colore simile a quello della buccia del frutto), sia che costituisca, in senso storico, il titolo che gli occidentali davano agli alti dignitari della corte imperiale cinese (e poi della Repubblica, fino al 1949), la cui casta godeva di ampi privilegi; da qui, sia detto per inciso, deriva l’uso del termine, specie al plurale, in senso spregiativo, per indicare esponenti di gruppi sociali di potere, uso comune al francese (si ricordi il romanzo di Simone de Beauvoir Les mandarins, del 1954), da cui deriva il termine mandarinismo. La voce mandarino è entrata in italiano nel Cinquecento, proprio con riferimento ai funzionari imperiali cinesi: la data del 1562 (GRADIT, Zingarelli) può essere di poco anticipata al 1558 grazie a quest’esempio, attinto a Google libri:
Hebbero licenza il P. Melchior & Luigi di Almeida solamente dal Mandarino di Cantaon (così si chiama il governatore) per parlar con Matthio de Brito che è un gentil huomo portughese, che con due altri stava prigione lì (Avvisi particolari de l’aumento che Iddio dà alla sua chiesa catholica nell’Indie… ricevuti dalli patri della Compagnia di Iesu…, Palermo, Maida, 1558, pp. Dv-DIIr; si tratta della trascrizione di una lettera scritta nel 1556).
Mandarino si usa anche come aggettivo, per riferirsi genericamente alla Cina e in particolare alla regione intorno a Pechino: si parla infatti di cucina mandarina e soprattutto di cinese mandarino o lingua mandarina (come calco dal cinese kuan-hua ‘lingua burocratica’), per indicare la ‘lingua burocratica e letteraria cinese’ (Zingarelli) o l’‘insieme dei dialetti parlati da due terzi delle popolazioni della Repubblica di Cina, spec. nelle aree centrosettentrionali e occidentali, e in particolare a Pechino’ (GRADIT), mentre non è chiaro se, nel caso di uccelli come l’anatra mandarina o il diamante mandarino, l’attributo si riferisca alla loro origine orientale, propriamente cinese solo nel caso dell’anatra (a cui si è ispirata per il proprio nome e il proprio marchio la Mandarina Duck, azienda di moda italiana specializzata in pelletteria e articoli da viaggio, nata nel 1977), o al colore giallo-arancio presente nel loro piumaggio: la denominazione, in questo secondo caso, potrebbe derivare dal nome del frutto. Questo, a sua volta, sembra che sia stato chiamato come il funzionario cinese “con allusione scherz. al colore giallo e alla provenienza orientale” (GDLI; cfr. anche DELI, che respinge la derivazione da Mandara, nome indigeno dell’isola Maurizio [Mauritius], proposta dal Panzini) o “per il colore del frutto paragonato a quello delle vesti dei funzionari imperiali, metafora coniata in Oriente” (l’Etimologico), che procederebbe dal referente umano al non umano. L’ipotesi si può appoggiare al fatto che lo stesso tipo lessicale è diffuso in francese, spagnolo e tedesco, lingue che hanno distinto il frutto dal funzionario attribuendo ad esso il genere femminile; tuttavia, non si può escludere che in italiano il mandarino sostantivo sia il risultato di un’ellissi, dalla locuzione arancio mandarino, in cui l’aggettivo fa riferimento all’origine cinese dell’agrume, tanto più che la prima attestazione del nome del frutto reperibile in Google libri (risalente al 1834, la stessa data indicata dallo Zingarelli) è la seguente:
Consiglierei di escludere tutti i Cedri, le Lime e i così detti Pomi d’Adamo, perciò che anderanno a meraviglia sotto i tropici, ma in Lombardia sono una curiosità costosa e nulla più: scegliete piuttosto un bel limoncello di Napoli, cosi fragrante per le bevande, un bell’arancio Manderino, che sono varietà di non gran mole e reggono assai bene in vaso e danno frutto quanto occorre per una famiglia (“Giornale agrario lombardo-veneto”, IV, 1834, pp. 124-125).
In ogni caso, la parola deriva dal malese mantari, a sua volta dal sanscrito mantrin ‘consigliere’ (e dunque collegata a mántrah ‘testo sacro, formula sacrificale, consiglio’), ed è entrata in Europa attraverso il portoghese mandarim, in cui sembra evidente l’influsso del verbo mandar (DELI). La presenza del gruppo -ar- sia nel malese sia nel portoghese rende la grafia e la pronuncia mandarino quella più corretta anche dal punto di vista etimologico. La forma in er (documentata, come si è appena visto, nel primo esempio relativo al frutto) si spiega come adeguamento alla fonetica fiorentina; nel dialetto di Firenze, infatti, il gruppo ar prima di sillaba accentata evolveva in er : ce ne accorgiamo da parole come margherita (dal lat. margarita ‘perla’), da alcuni suffissati in erìa (da ariam: libreria) e in erello/a (da arellum/am: Stenterello, pioggerella), e soprattutto dai futuri e dai condizionali della I classe verbale in erò e erei non in arò e arei (nonostante la loro formazione dagli infiniti in -are: cantare habeo > cantare *ao > cantarò > canterò; amare *hebui > amare *ei > amarei > amerei).
La forma fiorentineggiante (ma non fiorentina, almeno oggi) manderino è dunque registrata come variante arcaica (per il funzionario) o letteraria (per il frutto) di mandarino nel GDLI (ma non nel GRADIT né nello Zingarelli), ed è documentata, sempre nel GDLI, da esempi del fiorentino Francesco Carletti (morto nel 1636), del romano Pietro Metastasio e del lombardo Alfonso Longo (morto nel 1804) per il funzionario e da uno di Giovanni Pascoli per il frutto (“Ebbi quelle dodici fontane di gioia e i manderini in ottimo stato e i tappi”). Anche nel corpus dei romanzi novecenteschi compresi nel PTLLIN abbiamo tre occorrenze di manderino/manderini (tutti indicanti il frutto o l’albero) nel romanzo Ninfa plebea del napoletano Domenico Rea (premio Strega nel 1993):
Fu proprio una bella sera con la pancia piena di carne di cavallo arrecanata, insalata di arugola e purchiacchiello, patate fritte come tanti spicchi di manderino, provolone piccante di Nola, fichi secchi e noci […]
Ma anche in questo sfacelo costruttivo spuntavano qua e là minuscoli balconcini con vasi di gerani, aruta e resedà o minuscoli alberelli di aranci o di nespoli e manderini.
La guardava di sottecchi mentre si susseguivano le grandi piantagioni di carciofi, i giardini di aranci, limoni e manderini.
Ma le occorrenze di mandarino/mandarini/mandarine (quest’ultimo riferito alle anatre) nel PTLLIN sono ben più numerose (25) e si trovano anche in un autore fiorentino come Aldo Palazzeschi, che si aggiunge a Vasco Pratolini (in un passo citato nel GDLI).
Del resto, se si hanno tuttora oscillazioni tra -ar- ed -er- in alternanze come acquerello/acquarello, le forme in ar sono ormai esclusive (anche a Firenze) per parole di provenienza non toscana entrate in italiano in epoca più recente (mozzarella, spogliarello, pennarello, tamarindo; si pensi anche ai dollari, diversi dagli antichi talleri che pure ne sono alla base). Ma non mancano casi di “iperfiorentinismo” anche nel caso di parole o forme dialettali di area non toscana: in romanesco, per esempio, il garzone del fornaio è detto cascherino (parola, peraltro, di etimo incerto) e nel film di Mario Monicelli Il marchese del Grillo (1981), ambientato nella Roma ottocentesca, il nome del carbonaio sosia del protagonista (interpretato, come questo, da Alberto Sordi) è Gasperino e non Gasparino, come sarebbe stato all’epoca più plausibile (si tratta del diminutivo di Gaspare, nome tradizionale di uno dei re magi).