Padre fondatoreChi era davvero Robert Schuman

L’ex ministro degli Esteri francese autore della celebre dichiarazione del 1950 era anche un po' lussemburghese e tedesco. Uomo di confine, amante della Lorena fuggì dai nazisti e per un equivoco fu accusato di essere un collaborazionista

Afp

«Nelle cose indispensabili occorre essere uniti, in quelle dubbie liberi e in tutte caritatevoli». Questo era il motto di Robert Schuman, il ministro degli Esteri francese che con la sua dichiarazione il 9 maggio 1950, settant’anni fa, diede inizio al progetto per la costruzione di un’Europa unita dove fosse possibile mantenere una pace duratura. 

Il Padre dell’Europa non è nato con un’identità nazionale ben definita. Prima di tutto non è nato in Francia ma a Clausen in Lussemburgo, nel 1886. Il padre, un contadino di Évrange, era sì francese di nascita, ma a causa della disfatta nella guerra franco-prussiana del 1870 combattuta al fronte, diventò tedesco. La madre era lussemburghese e anch’essa diventò poi “tedesca” una volta sposata.

Cresciuto nell’ambiente multiculturale e cattolico lussemburghese, Schuman viene educato trilingue, il lussemburghese parlato dalla madre, il tedesco imparato nella scuola pubblica di Clausen-Lussemburgo, e il francese studiato all’Ateneo lussemburghese. Per il forte legame col padre, morto quando Schuman aveva quattordici anni, il fondatore dell’Europa sviluppò l’amore per la regione Lorena. Questa terra dov’era nato il padre nel giro di 50 anni era passata più volte sotto il dominio tedesco e francese. 

Proprio alla fine della prima guerra mondiale, nel 1919, la Lorena ritorna in Francia, così come il suo capoluogo Metz, dove Schuman aveva aperto uno studio legale grazie allo studio della giurisprudenza. Ma aveva frequentato corsi di economia, filosofia politica,
teologia e statistica tra Bonn, Berlino, Monaco di Baviera e Strasburgo. Dopo aver acquisito la nazionalità francese, Schuman entra in politica e diventa deputato dell’Unione Repubblicana Lorena.

Quella terra di confine un po’ tedesca, un po’ francese, un po’ europea gli dà abbastanza spazio per contenere le sue contraddizioni geografiche. 

Al Parlamento francese si mette subito in evidenza con la ’Lex Schuman’, una proposta per continuare a permettere l’insegnamento della religione all’interno delle scuole in Lorena (in Francia non era permesso dopo la separazione tra Stato e Chiesa).

Durante la seconda guerra mondiale l’esperienza di uomo di confine gli torna utile per diventare sottosegretario per i rifugiati nel governo di guerra francese, nel 1940. Dopo l’occupazione nazista si dimette ma il maresciallo Pètain alla guida del governo collaborazionista lo conferma senza consultarlo. Prima che possa dare le dimissioni il governo Pètain vota in massa per dare pieni poteri a Hitler nel nord della Francia. Una partecipazione involontaria diventerà una macchia che lo perseguiterà nei primi anni dopo la guerra. 

Ma proprio nel 1940 contrario alle decisioni prese dal governo di Vichy, torna a Metz. Qui, viene arrestato dalla Gestapo, la polizia nazista che non lo invia nel campo di concentramento di Dachau solo grazie all’intervento di un ufficiale: Heinrich Welsch. Un altro uomo di confine che sarà presidente del Saarland nel 1955, il lander al confine tra Lussemburgo e Francia. 

Agli arresti domiciliari passò il periodo da lui chiamato la “grande quaresima”, durante il quale parla solo in lussemburghese con chi gli fa visita per non farsi capire dai sorveglianti nazisti. Nel 1942, a 56 anni, fugge nella Francia non occupata. In quei mesi scrive nei suoi diari: «Questa guerra, benché estremamente terribile, un giorno finirà, e finirà con la vittoria del mondo libero.. Non bisogna continuare con l’odio e i risentimenti contro i tedeschi. Al contrario, senza dimenticare il passato, bisognerà riunirli e fare di tutto per integrarli nel mondo libero».

Con una taglia di 100.000 Reichsmark che pendeva sulla sua testa collabora per tre anni con la resistenza francese nelle fasi finali del conflitto e declina l’invito di tornare a Londra mandatogli dal leader francese in esilio, il generale Charles de Gaulle. preferendo
rimanere con i partigiani francesi.

Questa decisione non è sufficiente per riabilitare la sua figura subito dopo la fine del conflitto. Il nuovo ministro della guerra della Francia libera, André Diethelm, lo interdice dai pubblici uffici. Esige che «questo prodotto di Vichy venga immediatamente scaricato». 

Schuman allora scrive una lettera de Gaulle, per essere riammesso nella vita pubblica francese. Il generale acconsente.  In una Francia politicamente divisa che si stava risollevando dalle conseguenze drammatiche della guerra, Schuman è una delle poche figure di mediazione spendibili nello scontro tra gollisti e comunisti. Riesce così a ottenere cariche importanti, da ministro delle Finanze fino a presidente del Consiglio della Quarta repubblica francese nel 1947. Il suo governo di coalizione, durato un solo anno, viene anche ricordato per aver avuto per la prima volta una donna come ministra, Germaine Poinso-Chapuis al dicastero alla Sanità pubblica. 

Nel 1948 pviene scelto come ministro degli Esteri. Al Quay d’Orsay punta a concretizzare il legame europeo e assieme a colui che poi definirà un “grande amico”, Jean Monnet, progetta l’istituzione di un’autorità sovranazionale per unire la produzione di carbone e acciaio tra Francia e Germania.

Schuman aveva capito che una stretta unione tra l’industria siderurgica e carboniera dei due stati li avrebbe legato politicamente per sempre: «La pace in Europa è la chiave della pace mondiale, e la necessaria premessa per la pace in Europa è la riconciliazione tra Francia e Germania», un’esortazione a quella che sarà poi la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, nel 1951. 

Inclinazione al perdono e aspirazione alla creazione di una comunità sono sicuramente frutto della sua fede profonda. Grande ammiratore del pensiero di Tommaso d’Aquino, Schuman ha cercato ininterrottamente di conciliare sacro e profano, considerando la sua professione come una missione affidatagli da Dio al servizio dell’umanità.

Un parente dello statista, Henri Eschbach, riferendosi all’impegno in politica di Schuman disse: «I santi del futuro saranno santi con la giacca». Previsione che potrebbe rivelarsi azzeccata vista la causa di beatificazione in atto iniziata dal Vescovo di Metz con il nulla osta della Santa Sede nel 1990, e la nomina di Schuman a Servo di Dio nel 2004. 

Schuman trovò due grandi sponde per l’Europa unità in altri due uomini cattolici di confine: Alcide De Gasperi e Konrad Adenauer, anche loro esponenti di partiti cristiano-democratici e provenienti da regioni periferiche e contestate dei loro paesi. 

È nella Dichiarazione del 1950 che però Schuman esprime al meglio i suoi ideali, sostenendo l’importanza di una maggiore interdipendenza economica per lo sviluppo di un futuro europeo comune. Nello stesso documento è presente anche un accenno all’Africa: «Se potrà contare su un rafforzamento dei mezzi, l’Europa sarà in grado di proseguire nella realizzazione di uno dei suoi compiti essenziali: lo sviluppo del continente africano».

Una frase che porta a interrogarsi sul passato coloniale europeo e se questo fosse di fatto stato lasciato alle spalle o meno. Risorse africane in cambio di un aiuto per lo sviluppo, sembra voler dire Schuman. Una frase di troppo inserita su suggerimento di Jean Monnet, appassionato supporter del progetto Eurafrica, una partnership strategica tra Europa e Africa, che puntava a trasformare l’Africa nel cortile d’Europa al fine di bilanciare così le altre due superpotenze: Stati Uniti e Unione Sovietica. Robert Schuman, fu poi il primo presidente dell’Assemblea parlamentare europea dal 1958 al 1960 e morì a Scy-Chazelles nel 1963.

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