Non c’è bisogno di spiegare ai lettori di questo giornale perché mi abbia piuttosto sorpreso, in questi giorni, sentire evocare proprio da Enrico Letta il rischio che il centrodestra possa raggiungere i due terzi dei seggi e cambiare la Costituzione a suo piacimento, senza passare da un referendum. Se anche negli ultimi tre anni, su Linkiesta, aveste letto in tutto tre articoli, è probabile che almeno due sarebbero stati su questo problema. Se poi i tre articoli in questione fossero stati miei, la probabilità diventerebbe una certezza (in tal caso, suggerisco di saltare serenamente tutti i capoversi successivi, fino a quello che comincia con le parole «Tutti possono dunque»).
Il fatto è che da quando il Partito democratico decise di accodarsi al Movimento 5 stelle persino sul taglio costituzionale dei parlamentari – se fossimo in una sit-com, qui andrebbero inserite le risate registrate del pubblico, pensando a come è finita – da queste pagine denunciamo esattamente questo rischio, cui si sarebbe dovuto porre rimedio con una legge elettorale proporzionale. Peccato che proprio Letta, appena arrivato alla segreteria del Pd, si sia schierato per il maggioritario, smentendo la posizione ufficiale del suo partito, e abbia giocato di sponda con Giorgia Meloni, in modo fin troppo scoperto, pensando di spartirsi con Fratelli d’Italia il grosso della torta elettorale.
L’idea era sempre la solita: polarizzando il confronto, cioè dividendo in due l’elettorato e mobilitando la propria parte in uno scontro manicheo, o di qua o di là, anche il probabile sconfitto poteva immaginare di incassare comunque molto più di quanto avrebbe preso altrimenti, senza il ricatto del “voto utile” a prosciugare i potenziali concorrenti.
Tutti possono dunque criticare questo modo di fare campagna elettorale, fondato su un misto di allarmismo e demonizzazione dell’avversario, tranne Fratelli d’Italia, che fino all’ultimo ha difeso a spada tratta tale sistema, e punta anzi a imprimergli un’ulteriore torsione, agitando in campagna elettorale la proposta di una riforma presidenzialista.
Fa specie, pertanto, sentire Guido Crosetto, intervistato ieri dal Corriere della Sera, sostenere che ci voglia «un patto» tra le forze politiche, per evitare demonizzazioni reciproche che danneggerebbero non Meloni, ma l’Italia. Principio sacrosanto, intendiamoci, che però non si concilia benissimo con le card in cui proprio Meloni, appena due mesi fa, accusava Letta di essere favorevole, testualmente, «all’abisso della morte» (tra le altre cose).
Il «patto», spiega Crosetto, consisterebbe nell’impegnarsi a non fare una campagna elettorale a base di slogan come «l’Italia fallirà con Meloni» o «fallirà con Letta». Ma nessuno sostiene che l’Italia possa fallire con Letta, per la semplice ragione che il Pd non si è mai sognato di prendere posizioni demagogiche e irresponsabili sulle questioni vitali da cui dipende la nostra permanenza nell’area euro e nell’Unione europea. O perlomeno, diciamolo meglio, non a livelli neanche lontanamente paragonabili a quelli raggiunti da Fratelli d’Italia, che non ha votato nemmeno per gli aiuti europei al nostro paese, centinaia di miliardi in prestiti e persino in aiuti a fondo perduto.
Lucrare consenso con la più assurda demagogia antieuropea, ad esempio teorizzando la prevalenza del diritto interno sul diritto comunitario, e poi pretendere che in campagna elettorale gli avversari nemmeno te ne chiedano conto, obiettivamente, appare una pretesa un po’ eccessiva anche per chi, come me, sogna un sistema in cui ciascuno si presenta con il proprio programma e il giorno dopo il voto ricerca pazientemente un accordo in parlamento con le altre forze maggiormente premiate dagli elettori.
Se dunque Fratelli d’Italia vuole davvero inaugurare un nuovo corso della politica italiana, cominci con il dare il buon esempio, e tolga dal tavolo la pistola della riforma presidenzialista. Perché anche qui, non basta dire, come fa Crosetto, che la riforma sarà fatta con il dialogo e il confronto, anche qualora il centrodestra avesse la maggioranza dei due terzi (ci mancherebbe che la facesse insultando pure l’opposizione).
Il fatto è che la graduale rimozione di tutto il sistema di pesi e contrappesi della democrazia liberale, dopo averne conquistato democraticamente il controllo, è esattamente quello che ha fatto Viktor Orbán in Ungheria e che si propone di fare Donald Trump negli Stati Uniti, qualora riuscisse a tornare alla Casa Bianca. Se Meloni e Crosetto non vogliono sentire evocare quei nomi in campagna elettorale, sta a loro rassicurare tutti accantonando sin d’ora la riforma costituzionale (rinuncia da cui peraltro avrebbero solo da guadagnare, visto com’è andata a tutti coloro che ci hanno provato). Altrimenti, ogni inquietudine sarà più che giustificata. Parlare di presidenzialismo dopo essersi fatti i selfie con Orbán è come parlare di pace dopo essersi fatti fotografare con la maglietta di Putin: poco credibile e ancor meno rassicurante.
In compenso, sono ben felice di riconoscere che il tentativo di sbarrare a Matteo Salvini la via del ministero degli Interni è un segnale decisamente incoraggiante. Se all’indomani di un’eventuale vittoria del centrodestra il Viminale non andrà al leader della Lega, ma a un qualsiasi altro esponente della coalizione che non ne faccia il palcoscenico di una propaganda violenta e anti-istituzionale, bisognerà dare atto a Meloni di avere compiuto un passo importante, anche nell’ottica di quella normalizzazione dei rapporti tra gli schieramenti invocata da Crosetto.