Ammuina democraticaIl caos disorganizzato delle alleanze del Pd ha una sola spiegazione: cancellare le tracce

Il tentativo di stare contemporaneamente con Conte e con Draghi, pur di non smentire le scelte del passato, ha portato i democratici in un vicolo cieco

Photo by Kim Gorga on Unsplash

Comunque la si pensi su Giuseppe Conte e su Mario Draghi, sui rispettivi governi, sulle diverse formule politiche che li hanno sostenuti e sul merito delle molte questioni che li hanno divisi (dalla guerra in Ucraina al superbonus, dalle task force a catena come strumento di gestione del Pnrr al metodo Arcuri per la gestione della pandemia), su un punto credo che tutti i cittadini italiani, ma proprio tutti, con un’unica eccezione, convengano senza dubbio alcuno: Giuseppe Conte e Mario Draghi non sono la stessa persona. A dirla tutta, nemmeno si assomigliano. Anzi, non potrebbero essere più diversi. Il guaio è che quell’unica eccezione è il segretario del Pd.

È infatti la pretesa di non smentire questa assurda premessa a determinare, nel Partito democratico, tutte le contraddizioni e i paralogismi dell’attuale dibattito sulle alleanze.

Tutti gli altri esponenti del centrosinistra, sostenitori di Conte da un lato e sostenitori di Draghi dall’altro, potranno risultare più o meno convincenti o simpatici, ma esprimono il proprio punto di vista, se non altro, in forme non palesemente autocontraddittorie.

Coloro che fino a ieri hanno sostenuto il governo Conte e l’ipotesi di un’alleanza strategica con il Movimento 5 stelle, teorizzando che il primo fosse un grande statista e il secondo un movimento progressista coi fiocchi, hanno subito di malavoglia o esplicitamente contrastato il governo Draghi (come ha fatto sin dal primo giorno il Fatto quotidiano, che evidentemente a largo del Nazareno non arriva); di conseguenza, quegli stessi soggetti dicono oggi che è con i cinquestelle che bisogna allearsi, ed è semmai con i sostenitori della cosiddetta «agenda Draghi» che occorre tagliare i ponti, o perlomeno segnare una distanza. È la posizione apertamente sostenuta da Nicola Fratoianni, che infatti in questa legislatura ha appoggiato il governo Conte e ha fatto opposizione al governo Draghi. Ed è anche la posizione sostenuta, appena un po’ meno apertamente, per ragioni ovvie, essendo stato ministro in entrambi i governi, da Roberto Speranza (e da Articolo Uno).

Sul fronte opposto – all’interno dell’area di centrosinistra, progressista, non di centrodestra o come volete chiamarla – Carlo Calenda e Matteo Renzi hanno sostenuto, con altrettanta linearità, la posizione speculare: non avendo appoggiato il governo Conte (nel caso di Calenda) o avendone contrastato le scelte fino a provocarne la caduta (nel caso di Renzi), entrambi hanno sostenuto che è con i populisti che non ci si può alleare. Tanto più se l’obiettivo è realizzare il programma del governo Draghi e in particolare quei punti e quei principi richiamati dal presidente del Consiglio nel suo discorso della fiducia, e contestati da Conte.

Tutta l’Italia, con l’unica apparente eccezione di cui sopra, ha capito perfettamente dove corra la linea di confine, quali siano le posizioni in campo e la posta in gioco. Si potrà pensare che ha ragione Conte o che ha ragione Draghi, ma non si può pensare che abbiano ragione entrambi. Non si può sostenere che i rigassificatori vadano fatti ma anche impediti; che i termovalorizzatori si debbano realizzare ma anche bloccare; che le armi all’Ucraina vadano inviate ma anche no; che le norme sul superbonus (e sul reddito di cittadinanza) vadano riscritte in modo da evitare perlomeno gli sprechi, le truffe e le distorsioni più clamorose, ma anche lasciate esattamente così come sono.

La verità è che il Pd il governo Draghi non lo voleva affatto, come testimoniano i manifesti in cui diceva che l’unica alternativa al Conte ter erano le elezioni. Questo è il motivo per cui Nicola Zingaretti si è dovuto dimettere subito dopo. A quel punto nel partito si sarebbe dovuta aprire una seria discussione sulle scelte compiute, ma siccome tutti i massimi dirigenti le avevano condivise e ne avevano beneficiato, hanno preferito far finta di nulla, e lo stesso Letta ha continuato sulla stessa strada, immaginando di poter conciliare l’inconciliabile, presentandosi al tempo stesso come il più fervente sostenitore del governo Draghi e il più strenuo sostenitore dell’alleanza con i cinquestelle. Ripeto, sarebbe bastato leggere il Fatto quotidiano per verificare come le due cose non potessero stare insieme. Bisognava scegliere: o l’alleanza con i cinquestelle e la difesa dei risultati del governo Conte, o la rivendicazione delle scelte (diametralmente opposte) del governo Draghi.

E così, quando alla fine il Movimento 5 stelle ha deciso di non votare la fiducia al governo, il Pd si è trovato a dover compiere obtorto collo la scelta che aveva rinviato fino a quel momento: accettare fino in fondo la subordinazione alla linea populista dei suoi alleati, schierandosi dunque al loro fianco, contro Draghi, o viceversa.

Pur di non fare chiarezza, la brillante soluzione escogitata fin qui è stata un’alleanza senza i cinquestelle (perché non hanno votato l’ultima fiducia a Draghi) ma con Fratoianni (che non gliel’ha votata mai), con Mara Carfagna e Maria Stella Gelmini (da qualche giorno autorevoli dirigenti di Azione) ma anche con Luigi Di Maio. Quale senso politico, quale messaggio, quale campagna elettorale possa sviluppare un simile accrocco – ammesso e non concesso che un simile accrocco regga, e non salti in aria entro le prossime quarantotto ore – è difficile capirlo. Tanto difficile da autorizzare il sospetto che non lo abbiano capito neanche i promotori, e sia proprio questo l’obiettivo: un gran casino in cui si confondano definitivamente torti e ragioni, alibi ed errori, ingenuità e irresponsabilità.

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