Cos’hanno in comune i tessuti con i volti umani? E cos’hanno in comune i tessuti con i volti umani sfigurati e marchiati dagli effetti dell’acido? Apparentemente nulla. Anche se la lavorazione delle tele, il loro essere trattate all’interno di delicati, pedissequi processi artigianali che durano da generazioni, rimasti inalterati nel tempo e nella storia, somigliano alle terapie, alle cure, alle manipolazioni della pelle per farla tornare al suo stato originario. Per farla tornare simile a com’era prima. La pelle non è che lo sfondo sul quale derivano e si orientano i lineamenti: gli zigomi pronunciati, la radice del naso, l’arco delle labbra, la forma degli occhi. Per questo, allisciare le pieghe del tessuto della pelle, ricucirne gli strappi e le crepe è simile, tutto sommato, a chi si occupa della lavorazione al dettaglio del settore tessile.
Ma il motivo non è solo questo: alcune industrie, sparse prevalentemente nel Sud del mondo, utilizzano acido solforico in larga quantità per aiutare e smaltire le scansioni e i passaggi chimici degli apparati industriali. Proprio in queste zone, non a caso, il numero di donne colpite e sfigurate dall’acido – o in sofferenza per problemi legati a queste sostanze – è più alto che altrove.
Il fotografo britannico John Rankin Waddell (noto come Rankin), celebre proprio per l’attenzione e la passione che lo hanno sempre portato a concentrarsi sui volti umani, ha immortalato il viso di Patricia Lefranc, sopravvissuta a un attacco di acido. Sensibilizzare, forse. Ma anche rendere ciò che è stato distrutto degno di una qualche poetica, come avviene per i paesaggi brutalizzati dalle costruzioni, al mare inquinato dal petrolio, alle isole di plastica che invadono gli oceani. La campagna, perché di una vera e propria campagna si tratta, è stata organizzata da Acid survivors trust international (Asti), il solo organo di competenza sulla questione, che trascende cioè dalla sola tematica di violenza di genere, com’è accaduto in Italia e in altre Nazioni occidentali, ma la estende a un fatto di disuguaglianza economica.
Ogni anno milioni di tonnellate di sostanze chimiche vengono prodotte e utilizzate dall’industria, compresi pericolosi agenti corrosivi, si legge sul loro sito. Agenti corrosivi utilizzati poi come arma contro le donne, ma non solo. Diecimila sono gli attacchi registrati in tutto il mondo ogni anno. Collaborando con le Nazioni unite e il governo, Thomson Reuters Foundation, Trustlaw e lo studio legale internazionale Covington, Asti si impegna a modificare la legislazione inglese, per fare in modo che le quarantatré milioni di tonnellate di sostanze chimiche utilizzate dalla moda e dal settore del tessile diminuiscano.
«In Bangladesh l’incidenza della violenza con l’acido è più alta nei distretti in cui si concentrano le industrie dell’abbigliamento e della gioielleria che utilizzano acidi», ha rivelato uno studio della Avon Global Center for Women and Justice. E in Pakistan, più che mai lungo la cosiddetta «cintura del cotone», una lingua di terra in cui si concentrano i principali punti strategici della sua lavorazione, nel Punjab meridionale e nell’alto Sindh.
«L’odierno sistema tessile ha molteplici impatti sociali negativi. Molti lavoratori sono costretti ad affrontare ambienti di lavoro pericolosi a causa di processi non sicuri e pericolose sostanze utilizzate nella produzione», conferma la Ellen MacArthur Foundation. Che cosa vediamo quando vediamo il volto di Patricia Lefranc? Se lo è domandato Rankin per primo, lui che con il mondo della moda e i grandi marchi ha sempre collaborato. Il suo Look Book Tear Coutoure riflette sul contrappasso curiosamente e dolorosamente dantesco a cui le vittime di acido sono sottoposte: lo specchio, il mezzo su cui si regge la cultura delle immagini odierna, ricorda loro che cosa è successo, cosa hanno subito ogni volta che sono costrette a posarvi lo sguardo, ogni volta che cercano il loro riflesso, ogni volta che lo incontrano distrattamente sulla superficie delle vetrine, delle macchine, del cellulare.