Nuove lettureLa visione eurocentrica del fotogiornalismo e la riscoperta delle fonti neglette

«Devono essere un uomo o una donna del Bangladesh a raccontare il lavoro nero a Dacca, le carestie e le inondazioni, di cui ci giungono solo eco lontane», racconta il fotoreporter Uliano Lucas, classe 1942, in “A passo lento nella realtà” (Mimesis Edizioni), di cui vi proponiamo un estratto

Courtesy of Mimesis Edizioni

Sappiamo tutto dei grandi miti del fotogiornalismo internazionale… Sappiamo già molto meno del fotogiornalismo italiano. Non sappiamo assolutamente nulla dei fotografi dei paesi del Terzo mondo. È il problema della comunicazione (e quindi della cultura) mondiale, in cui pochi paesi condizionano il resto del mondo, esportando modelli di sviluppo e controllando i grandi canali dell’informazione. 

Elio Vittorini sosteneva che ci sono due tipi di scrittori: “quelli che leggendoli ti fanno pensare ‘ecco, è proprio vero’, e che cioè ti danno la conferma di ‘come’ sai che in genere sia la vita. E quelli che ti fanno pensare ‘perdio, non avevo mai supposto che potesse essere così’”.

A Maputo nei primi anni ottanta, quando organizzai insieme a Ricardo Rangel il Centro di formazione fotografica, io cercavo questo nuovo, rivelatore, “così”, queste impensate prospettive da cui scoprire la realtà; tentavo di dare a una nuova generazione di operatori della comunicazione visiva di un paese giovane, che stava costruendo le sue fondamenta politiche e culturali, gli strumenti per indagare e raccontare la propria realtà, ma non imponendo una mia visione, come spesso avviene nei workshop di fotografia internazionale, semplicemente aiutandoli a valorizzare la propria. 

Girando con loro, a Maputo, al mercato di Xipamanine, o durante il viaggio fatto insieme nella sperduta provincia del Niassa, mi accorgevo che il mio sguardo era comunque quello di un reporter occidentale, con una determinata visione del fotogiornalismo radicata nella cultura umanista francese, nel documentarismo sociale delle democrazie del Novecento, mentre il loro occhio, la loro percezione delle cose, degli spazi, del tempo e quindi del mezzo fotografico era un’altra. Allora come si innesta un’invenzione profondamente legata all’Occidente industriale come la fotografia, che è stata ed è un potente veicolo di diffusione della nostra visione eurocentrica del mondo, su culture diverse, che hanno avuto altri mezzi di espressione, altre storie? 

Loro, a Xipamanine, vedevano altro. Ecco allora le differenze, che bisogna scoprire, valorizzare, perché il mondo non è quello che ci stanno raccontando. Non è quello mostrato dal sistema della comunicazione occidentale attraverso le maggiori testate e agenzie internazionali, attraverso le case di produzione cinematografiche e televisive che impongono i loro format, i loro schemi narrativi e i loro modelli di vita e di pensiero in tante parti del pianeta. “Oggi la fotografia con i suoi derivati, televisione e cinema, è dappertutto in ogni momento… – scriveva Ugo Mulas – Vediamo sempre più con gli occhi degli altri. Potrebbe anche essere un vantaggio; migliaia di occhi invece di due, ma non è così semplice. Di queste migliaia di occhi, pochi, pochissimi, seguono un’operazione mentale autonoma, una propria ricerca, una propria visione. Anche inconsapevolmente, le migliaia d’occhi sono collegate a pochi cervelli, a precisi interessi, a un solo potere”. 

Si tratta allora di trovare i modi per moltiplicare i punti di vista, riscoprire le fonti neglette. Devono essere un uomo o una donna del Bangladesh a raccontare il lavoro nero a Dacca, le carestie e le inondazioni, di cui ci giungono solo eco lontane, portandoci a conoscere le condizioni economiche, sociali e culturali del loro paese. Devono essere dei raccoglitori di pomodori provenienti dal Ghana, dal Senegal o dalla Romania, a raccontare in prima persona la loro vita, impadronendosi del mezzo fotografico con una loro chiave narrativa, senza imitare le scelte di rappresentazione dei professionisti. E questo materiale non deve rimanere chiuso in un cassetto, deve circolare. Bisogna inventarsi un altro tipo di fotografia, di informazione, di comunicazione. 

Si tratta di rompere il monopolio della visione che ci attanaglia, che è poi quella della società dei consumi neoliberista, e costruire dal basso nuove fonti di produzione e di distribuzione di immagini. Cercare nuove letture della realtà, nel confronto con gli altri; cercare nuovi canali che diano a esse spazio, e lavorare per la costruzione di nuove società, che escano dall’omologazione culturale e politica. Perché, come scriveva Erwin Panofsky, un “boscimane australiano non sarebbe capace di riconoscere il soggetto di un’ultima cena; in lui evocherebbe solo l’idea di un pranzo movimentato”. 

E la ricchezza di una democrazia è nella polifonia delle voci, dei racconti che scardinano il tuo modo di pensare, sovvertono le tue prospettive e sicurezze, che ti aprono a nuove percezioni, ti fanno immaginare nuovi mondi. Oltre la visione comune. Oltre le nostre paure e le nostre certezze.

Da “A passo lento nella realtà”, di Uliano Lucas e Tatiana Agliani, Mimesis Edizioni, 304 pp, € 26,60

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