Ha poco senso ripescare dall’armadio del neoministro della Cultura, Alessandro Giuli, gli scheletri di una giovanile militanza neofascista, che accomuna generazionalmente gran parte della classe dirigente di FdI formatasi negli anni precedenti alla fine della Prima Repubblica e al superamento della logica dell’arco costituzionale.
Se il fattore K (come Kommunizm) non aveva impedito al PCI di accreditarsi come partito di sistema, il fattore F (come Fascismo) aveva ideologicamente confinato il MSI e l’intera galassia delle organizzazioni politico-culturali della destra italiana nella riserva tollerata, ma chiusa, delle forze anti-sistema, con cui erano possibili compromessi affaristici (il Governo Tambroni, la Presidenza Leone), ma non veri rapporti politici, mancandone il presupposto fondamentale della legittimazione costituzionale.
Anche i pochi che negli anni Ottanta tentarono di uscire dalla gabbia reducistico-nostalgica, in cui l’orgoglio postfascista e il disprezzo antifascista confinavano i giovani e meno giovani della destra italiana e un decennio dopo condussero Fini alla svolta di Fiuggi non avevano alcuno spazio politico frequentabile, se non quello dei ghetti del movimentismo e del folklore nero e quindi erano inevitabilmente esposti all’attrazione del gruppettarismo estremista, quando non eversivo.
Ciò su cui oggi Giuli dovrebbe essere chiamato a riflettere – non a rispondere come a un’accusa, ma a elaborare come un nodo irrisolto e ipocritamente rimosso nella cavalcata vincente della destra italiana – è invece un dato molto più attuale, storicamente indiscutibile, ma politicamente equivoco quant’altri mai, che ha a che fare con le scelte compiute quando la destra era già da tempo uscita dal ghetto anti-sistema, accreditandosi come una componente organica della coalizione berlusconiana.
La destra della generazione di Giuli, di Meloni e dei ragazzi di Colle Oppio, per andare avanti ha scelto di tornare indietro e ha rottamato la svolta di Fiuggi e di buona parte del finismo liberal-conservatore in senso europeo come un tradimento subornato dalla sinistra.
La fratellanza meloniana, per prendersi il banco del centro-destra italiano si è postfascisticamente riallineata al neofascismo internazionale e agli aedi della democrazia illiberale, del suprematismo razziale, del complottismo fanatico e del dispotismo reazionario, con un nuovo Pantheon che ha sostituito i busti polverosi del Duce e dei gerarchi del Ventennio con le immagini degli Orbán, dei Bannon, dei Trump e dei Putin e con parole d’ordine da suburra neonazista sulla sostituzione etnica, sull’Europa delle banche, sui finanzieri ebrei usurai e sul partito di Davos.
Sono tutte retoriche a cui anche Giuli ha prestato la sua penna arguta, i suoi modi garbati e il suo lavoro culturale, continuando a patrocinare la causa del sovranismo come controveleno necessario allo “shock anafilattico” (parole di Giuli) della globalizzazione economica e demografica.
Qual è la spiegazione di tutto questo?
Ce n’è una opportunistica e politicista. Visto che quello era il vento che tornava a spirare in Occidente, visto che il nazionalismo tornava a essere, oltre che un ottimo rifugio, anche un redditizio prodotto del mercato politico, allora: perché no? Perché lasciare questo buonissimo affare agli altri e non intestarselo, aggiornando – neppure troppo – il vocabolario della fierezza antimondialista e del vittimismo antiplutocratico dei fascisti e postfascisti d’antan?
C’è però un’altra risposta, meno indulgente e più veritiera, a questo “perché”. Ed è che alla paccottiglia che ha nutrito la solitudine dei cuori neri e la frustrazione del postfascismo del dopoguerra questi giovani hanno continuato a credere, senza volersene davvero emancipare e senza riuscire comunque a liberarsene.
Per questo – ecco l’esempio più clamoroso – hanno continuato, fino al 24 febbraio 2022, e alcuni anche dopo, a vedere in Putin l’unico statista davvero di destra, a riconoscervi un baluardo dei valori europei e dell’identità cristiana e un alleato contro le élite tecnocratiche internazionali, che scippano il valore della sovranità.
Per questo hanno trovato nel campione del fascismo contemporaneo e puparo dell’internazionale sovranista un modello non solo alleabile, ma emulabile, a cui negli ultimi due anni non è più stato possibile rendere omaggi pubblici per ragioni di opportunità, ma su cui non si è neppure ritenuto utile rimangiare tributi e giudizi lusinghieri o pronunciare damnatio memoriae definitive.
Non c’è leader di FdI di cui su Putin non sia possibile ripescare giudizi di tremendo e assurdo candore. Ed era un Putin che già diceva e faceva da anni ciò che qualcuno ha fatto finta di scoprire solo nel 2022: ammazzare gli oppositori, gestire con una mafia poliziesca un regime cleptocratico, ubriacare di fake news e vodka un popolo di morti di fame, reclutare soldati di ventura e delinquenti in guerre tecnicamente terroristiche, allargare con annessioni militari la nuova sfera di influenza russa nello spazio ex sovietico, infiltrare le democrazie occidentali con un opera scientifica di inquinamento cognitivo e di corruzione economica, colonizzare militarmente stati falliti o inesistenti come la Siria, la Libia e altri pezzi di Africa. Però Putin piaceva, quanto piaceva (piace?).
C’è da augurarsi che il programma e il piglio del Ministro Giuli sia diverso da quello del suo predecessore, che affermava con boria mimetica la pretesa di una nuova egemonia culturale conservatrice, semplicemente rovesciando lo schema del rapporto servente tra cultura e politica contestato alla sinistra.
C’è però anche da sperare da un Ministro che, a quanto dice, non vuole essere un propagandista una riflessione veritiera sul percorso politico-culturale a marcia indietro, che ha portato lui al Collegio Romano e Giorgia Meloni a Palazzo Chigi e che domani porterà loro e l’Italia chissà dove.