Il dibattito sul sesso della pugile algerina Imane Khelif ha raggiunto punte di surreale stupidità che pure sarebbe stato difficile immaginare. Chi scrive è un avvocato che, magari a torto, ancora si ostina a credere nelle ragioni del diritto, e prova orrore nel vedere risorgere dagli anfratti più bui della storia argomentazioni e mostri che sarebbero dovuti sparire.
Con orrore vedo che al coro della criminalizzazione di Imane si aggiungono pure colleghi, già titolari di prestigiose cariche e rappresentanze forensi che quotidianamente pontificano con vuote parole di diritti dei cittadini, eppure trovano normale puntare il dito dell’accusa razzista contro i nuovi mostri definiti come «gli intersessuali».
Se l’abisso dell’ignoranza è comprensibile (ma non giustificabile) per i non addetti ai lavori, chi si professa esperto di cose giuridiche ha l’obbligo di documentarsi e pronunciarsi a ragion veduta, anche solo per una minima questione di credibilità personale.
La vicenda di Imane, una povera ragazza vittima di un ignobile linciaggio razzista che dovrebbe suscitare orrore, ha un illustre quanto recente precedente giuridico richiamato di recente qui da Carmelo Palma: la sentenza emessa l’11 luglio 2023 dalla Corte Europea dei diritti umani “Semenya c. Suisse” ricorso numero 10934/21.
Ne avevamo scritto su Linkiesta in occasione della sua pubblicazione con riferimento all’efficacia della giurisdizione delle Corti europee anche in materia sportiva. La fondista olimpionica sudafricana Caster Semenya aveva impugnato alla Corte europea di Lussemburgo la decisione del Tribunale Arbitrale dello Sport di Losanna (Tas) che riteneva legittima l’imposizione per l’atleta di sottoporsi a un trattamento ormonale per la riduzione del testosterone presente nel suo organismo.
La donna, campionessa olimpica e mondiale degli 800 metri, è affetta da un disturbo dello sviluppo sessuale caratterizzato da una produzione di testosterone pari a quella maschile (10 nmol/L). In base al regolamento imposto da World Athletics, l’organismo internazionale che disciplina le competizioni di atletica leggera, entrato in vigore il 31 marzo 2023, le atlete con un livello di testosterone più alto della norma debbono sottoporsi a procedure mediche per abbassarlo.
Nel luglio 2010, la IAAF ha consentito a Semenya di partecipare a una gara soltanto dopo averle chiesto di sottoporsi a un trattamento volto a riportare il suo livello di testosterone al di sotto dei 5 nmol/L. Nel 2018, la IAAF ha formalizzato tale limite nel Regolamento Dsd (Eligibility Regulations for the Female Classification – Athletes with Differences of Sex Development).
Semenya aveva contestato come discriminatorio il regolamento al Tas, che aveva rigettato il ricorso ritenendo prevalente l’esigenza di salvaguardare il merito sportivo.
La donna si era quindi rivolta al tribunale federale svizzero, organo giurisdizionale supremo della Confederazione svizzera, ottenendo anche in questo caso un netto rifiuto. Ma l’intervento di un organo giurisdizionale di un Paese aderente alla Convenzione europea ha legittimato l’intervento ben più penetrante e incisivo della Corte Europea di Strasburgo, cui Semenya ha inoltrato ricorso con parole bellissime e definitive che dovrebbero parlare innanzitutto al cuore di ogni donna: «I believe if you are a woman, you are a woman», penso che se sei una donna, sei una donna.
La Cedu le ha dato ragione ravvisando nella decisione del Tribunale federale svizzero molteplici profili di violazione dei diritti umani e il rischio di una grave discriminazione (articolo quattordici della Convenzione europea dei diritti umani). La decisione è stata presa a maggioranza nel luglio del 2022, giacché tre giudici hanno obiettato sulla specificità e autonomia dell’ordinamento sportivo.
Come sottolinea Stefania Cecchini sulla rivista Diritti comparati, «la Corte ha ritenuto che la posizione di squilibrio di potere in cui versano gli atleti rispetto alle organizzazioni sportive come la World Athletics rende tale rapporto assimilabile a quello tra cittadini e Stato e, dunque, i tribunali nazionali sono tenuti a garantire una protezione effettiva contro la discriminazione da parte dei privati».
Ancora, a fronte di «una denuncia di discriminazione la cui serietà e argomentabilità a priori non è stata confutata», per la Corte è mancato «un esame approfondito, alla luce della Convenzione, dei motivi a sostegno della giustificazione oggettiva e ragionevole del regolamento Dsd». Secondo la Corte, «all’atleta deve essere concesso il beneficio del dubbio».
In relazione al bilanciamento degli interessi in gioco (parità di diritti, tutela della salute), sostiene la sentenza, nel regolamento non c’è un esame «completo e adeguato della pretesa di trattamento discriminatorio né una corretta e adeguata ponderazione di tutti gli interessi in gioco». Semenya, e con lei ogni donna atleta nelle stesse condizioni (come Imane Khelif), è vittima di discriminazione in quanto «non posta in condizione di compiere una vera scelta: o si sottopone a un trattamento farmacologico, suscettibile di danneggiare la sua integrità fisica e mentale, per ridurre il suo livello di testosterone e poter esercitare la sua professione, o rifiuta questo trattamento con la conseguenza di dover rinunciare alle sue gare preferite, e quindi all’esercizio della sua professione». Infine, «la Corte contesta al Tribunale federale di non aver tenuto adeguatamente conto delle differenze significative tra le persone intersessuali per nascita e le persone transgender, le quali scelgono di cambiare sesso più tardi nella vita».
Interverrà ancora sul punto la Grande Camera della Corte europea, ma intanto un pesante sasso è stato gettato nello stagno. Se il supremo consesso europeo confermerà la prima decisione ogni atleta o società sportiva potrà adire il giudice europeo contro una decisione che incida sui suoi diritti fondamentali.
Come si può vedere, ci troviamo di fronte a una questione di estrema complessità che investe profili fondamentali di fronte ai quali solo lo stupido può avere certezze, non certo un giurista degno di questo nome.
Eppure abbiamo assistito a un linciaggio mediatico, alla riesumazione della categoria del monstrum come simbolo del male da scacciare ed isolare. Dovremmo ricordarci tutti molto bene dove abbiamo già visto questa paccottiglia. Per chi lo avesse dimenticato, suggerisco di rivedere un magnifico film di Stanley Kramer, “Vincitori e vinti”, sulla colpa dei giuristi tedeschi che non vollero vedere la tragedia del nazismo un secolo fa. L’aggressione di Imane è questo: razzismo genetico.