Quando il 26 giugno scorso Marina Berlusconi rilasciò un’intervista al Corriere della Sera, lamentando di essere rimasta orfana di una seria politica sui diritti, rottamata dal centro-destra post-berlusconiano, e dichiarando di essere su questi temi – aborto, fine vita, libertà sessuale – più in sintonia con la sinistra, le fattucchiere di Palazzo vaticinarono immediate turbolenze nella maggioranza e tempi duri per il moderatismo democristiano di Tajani e interpretarono le parole della figlia del fondatore come un ordine di scuderia esplicito per il riposizionamento politico-ideologico di Forza Italia.
Degli entusiasmi frustrati per i vani e ripetuti annunci della rivoluzione liberale da parte del Cavaliere, nel suo trentennio di cavalcate nel teatrino della politica italiana, si potrebbe fare un’antologia, anzi un’enciclopedia, che racconterebbe molto dell’antropologia nazionale, oltre che di quella personale di un uomo che ha sempre pensato, come editore e come politico, che l’unico prodotto di valore sia la pubblicità, e che tutto quello che le gira intorno – tutte le parole che si dicono, tutte le cose che si fanno – abbiano senso solo nella misura in cui ne accrescono i guadagni, che si tratti di soldi o che si tratti di voti.
Le idee si misurano dal fatturato, un’idea che fattura è giusta, una che fattura di più è più giusta. E se alla fine in questo disgraziato Paese finiscono per fatturare di più le idee peggiori, visto che le idee in sé sono tutte fungibili e quindi tutte irrilevanti – puoi vendere Karl Popper o Steve Bannon, sempre di vendita si tratta e puoi anche dire che Bannon è figlio di Popper e come lui un vero liberale – l’imperativo categorico berlusconiano era comunque di rispettare questa legge di mercato.
Non si può escludere, oggi, l’imbarazzo di due imprenditori intelligenti, moderni e di successo come Marina e Piersilvio nel vedere l’impero politico-mediatico del padre finire, anche solo per ragioni di ascolto e di sopravvivenza, a servizio dell’egemonia culturale del retequattrista collettivo e di quella sorta di Bagaglino del rodimento e del pregiudizio, che è il dibattito pubblico del campo sovranistra (non che in quello sedicente progressista manchino altrettanti fenomeni mostruosamente reazionari).
Ma se gli eredi fanno annunci politici, se fanno trapelare intenzioni di discese in campo dirette e indirette, non si può concedere loro il tempo eterno regalato al padre per non fare sul serio, per dire e disdire tutto e il suo contrario, in un eclettismo che gli estimatori (sempre meno) trovavano ganzissimo e i disillusi (sempre più) insopportabilmente paraculo, in una perenne rincorsa di quel sole dell’avvenire che, come quello dei comunisti, non è mai oggi, ma sempre domani.
Quando Tajani ha aperto nel centro-destra la partita dei diritti – su un tema non citato da Marina Berlusconi nell’intervista, cioè lo ius scholae, più gradito al mondo cattolico e quindi più congeniale anche per lui – si poteva pensare che qualcosa stesse davvero cambiando e che con la logica dei piccoli passi Forza Italia stesse iniziando a mettere in discussione qualcosa della identità, cioè dell’impresentabilità, della destra che si balocca tutta felice con le mitologie paranaziste della sostituzione etnica e dell’estinzione programmata dell’uomo bianco.
Per svelare il bluff di Forza Italia è bastato però che Calenda annunciasse la presentazione della “proposta Tajani” – cittadinanza dopo dieci anni di studio in Italia e dopo l’assolvimento dell’obbligo scolastico – in forma di emendamento in un disegno di legge in discussione alla Camera, che, tra le altre cose, già interviene sulla legge sulla cittadinanza agli stranieri. Il partito berlusconiano ha reagito con scandalo e dispetto contro Azione per una proposta che è scandalosa e dispettosa, proprio perché sottrae il tema alla chiacchiera festiva, sottoponendolo alla concreta iniziativa legislativa feriale, cioè facendo uscire la politica dalla dimensione della pubblicità per farla rientrare, teoricamente, nel terreno che le è proprio: quello della responsabilità di governo.
Il che dimostra che il partito berlusconiano è rimasto davvero fedele allo stile e all’etica del fondatore e che ai fideiussori del partito, cioè ai figli, tutto sommato va bene così, oppure sono davvero tutt’altre le cose che passano loro per la testa, non certo rinverdire il mito della “Forza Italia dei diritti”. Poi magari da qui al 10 settembre, quando l’emendamento dovrebbe essere votato dalla Camera, succederà qualcosa di nuovo o di inaspettato. Ma le probabilità stanno a poco più di zero, mentre le chiacchiere sui diritti di questi professionisti del rinvio rimangono a mille.