Sarà anche disordinata e arruffona, ma la «cosa di centro» esiste. Se non altro, perché come in tutte le realtà della vita e quindi della politica, il vuoto non è ammesso, ed è irresistibile la tendenza a colmarlo. Il problema è quello di capire cosa vuoi metterci e soprattutto come. Per una cosa ben fatta forse è già troppo tardi, dopo il clamoroso flop di giugno che ha sepolto l’ex Terzo Polo, ma qualche margine c’è ancora, almeno fino a quando il caos è prevalente e la polvere non si è del tutto depositata. Ma bisognerebbe fare in fretta, oppure ci sarà presto qualcuno che riempirà quel vuoto a modo suo.
Uno che di vuoto se ne intende perché ci ha costruito vaghezze da sempre, Antonio Tajani, è il primo autocandidato ad occupare quel dieci-quindici per cento potenziale, che è stato per brevi momenti l’illusione ad esempio di Mario Monti, e poi dell’ineffabile duo Calenda-Renzi.
Quando il capo di Forza Italia evoca il venti per cento per il suo partito, forse pensa proprio alla somma tra il suo dieci per cento e quell’otto per cento che Italia viva e Azione hanno buttato via alle Europee, senza valutare però che un pezzo di quel risultato dei due separati fuori casa, genuino nel 2022, se ne era già andato ai post berlusconiani alle votazioni di giugno. Già, perché la campagna elettorale gratuita di Tajani era stata fatta senza fatica evidenziando bene i litigi, le supponenze, gli egoismi delle comari.
Lì, però, era bastato allungare la mano e cogliere i frutti, senza molto merito, e gli elettori delusi della mancata coesione liberaldemocratica avevano (in parte) aderito alla finzione «popolare» del grande partito che avrebbe vinto comunque le elezioni europee, sia in caso di affermazione delle destre sia in caso di riconferma della maggioranza tradizionale.
Ora è invece un tantino più difficile, si può ricorrere al massimo all’imitazione di chi – Enrico Costa lo ha già fatto – rientra buono buono a cantare l’inno nel coro berlusconiano (peccato…). Magari con qualche lista d’attesa per Gelmini e Carfagna, che tanto un tetto sotto cui ripararsi comunque lo trovano, magari quello prefabbricato dei «moderati» di Maurizio Lupi, straordinario esempio – da segnalare nei manuali di scienza politica – di chi ha un numero di passaggi nel Tg serale più elevato dei voti che rappresenta.
Certo è che resta il rischio di una nuova trasfusione di consensi centristi verso il più pervicace esempio di asservimento alla destra mai riscontrato nella pur indecorosa politica nazionale. Mancava solo l’elogio al Ministro degli Interni del governo Conte uno come eroico salvatore dei confini nazionali, dopo già essersi distinti come pignoli esegeti della diversità tra armi offensive e difensive, sostenitori di fatto (unici tra i «popolari») dell’illiberale Victor Orban. Certo Marina Berlusconi non può arrivare dappertutto. In politica, al massimo, ha tempo per Mario Draghi e non per Antonio Tajani, e deve giustamente pensare a Fininvest.
Dunque, Tajani a parte, chi potrà distinguersi dentro il frullatore della «cosa di centro»? Compito arduo, perché ci vorrebbe un minimo comun denominatore, mentre ci sono tante, troppe, differenze genetiche. I radicali fanno i radicali e continueranno a farlo. Assorbita la sconfitta europea senza fare molte pieghe, pur avendo dato un colpo di grazia alle ambizioni di Emma Bonino, brindano a birra con Conte, e vabbè. Ci sarebbero poi i soliti Carlo e Matteo, ma metterli insieme è più che mai disperato, e oltretutto stanno perdendo pezzi.
La prossima puntata è da brividi. Fino al dopo elezioni, Carlo Calenda si proponeva come «maestro e donno» del Pd, che in effetti ne avrebbe molto bisogno, facendo pensare che ambiva a portare un po’ del suo realismo (la dote migliore) dentro i Centri Sociali del Nazareno, ma poi a Matteo Renzi è venuta in mente una nuova mossa del cavallo e si è preso lui il posto in prima fila al Festival dell’Unità. Come farà ora Calenda a recuperare? Nelle fila degli ex terzopolisti, intesi come base di quelli che ci credevano, Calenda era diventato impopolare perché l’astuto Renzi gli aveva lasciato in mano il cerino della colpa delle divisioni, ma ora il paradosso è che lo guardano con interesse coloro che disprezzano il «campo largo» inopinatamente riconsiderato da Renzi. Un bel guazzabuglio, un bel «trambusto» che assomiglia a un caotico trasloco di mobili da una casa all’altra.
Tolti insomma tutti quelli che pensano non al Centro ma a se stessi: Tajani, Renzi, Calenda, i radicali (ma la loro mobilità è imprevedibile), cosa resta allora di quel tanto mitizzato Centro? Ebbene, sembrerà strano, c’è molto movimento tra i liberali, che pochi considerano (eppure messi insieme sono almeno il triplo dei voti di Maurizio Lupi), e sono un clamoroso e storico esempio di litigiosità e divisione, ma dovrebbero aver imparato la lezione. Chissà.
Sabato scorso erano almeno millecinquecento i partecipanti a Milano alla riunione indetta da Nos, organizzata da Alessandro Tommasi, un imprenditore che ha saputo raccogliere oltre quindicimila preferenze alle europee (lista Calenda) con una straordinaria capacità di attrazione verso giovani che manco sanno cosa sono il Pli o il Pri, ma capaci di entusiasmarsi per il format scelto da Tommasi. Non c’era da annoiarsi, niente discorsi barbosi, molta musica, slogan, hashtag, domande impreviste e non programmate. Un rischio di superficialità, forse, ma sotto le apparenze festaiole molta determinazione, quella che manca ai mugugnatori storici del mondo liberale.
Liberali di Nos? Forse sì, per le idee base emerse e la mancanza di pudore nel dichiararsi tali. Ricordando Carlo Calenda, che per autodefinirsi, a bei tempi, infilava un lungo elenco di aggettivi senza scegliere il baricentro, mettendo la parola liberali insieme a tante altre non sempre omogenee, è già qualcosa. È spiegabile dunque la prontezza con cui dei liberali veri sono saliti sul palco come ospiti, Luigi Marattin e Andrea Marcucci su tutti. Un avallo prudente a Nos? Forse sì, ma bisognerà capirlo in tal caso presto.
Certo i due leader non hanno usato giri di parole. Marattin ha appena fondato, in uscita da Italia Viva, una cosa che si chiama «Orizzonti liberali», e viva la faccia, senza vergognarsi di scegliere la parola liberale in un Paese europeo che i liberali li ha lasciati a casa il 19 giugno (e sarebbero stati preziosi a Strasburgo). Quanto a Marcucci, presidente di Libdem, ha addirittura evocato con orgoglio la sua provenienza dal vecchio Pli, di cui è stato parlamentare a ventisette anni. E sono tutti ex Pli, con cui Marcucci è cresciuto, i soci di Liberal Forum che alla Europee si sono battuti nelle liste di Libdem sostenendo il relativo ma non banale successo elettorale di Graham Watson.
Il punto centrale di questo focus sul caos della cosa di Centro è comunque capire se, almeno loro, i liberali, vogliono mettersi insieme e creare un unico soggetto nuovo. Sarebbe l’unica intenzione ordinata rispetto al trambusto, e la migliore risposta al «liberale» Tajani, personalmente di origini monarchiche, poi popolare per furba scelta berlusconiana, oggi al traino della destra nel Governo più di destra della storia repubblicana.
Ma questo arcipelago liberale deve mettersi in testa che deve rinunciare una volta per tutte al separatismo e all’orgoglio delle piccole case di appartenenza. Anziché congressi separati, con statuti separati in eterna rielaborazione, si faccia uno statuto solo e un congresso solo che approvi un documento chiaro e univoco, buono per tutti quelli che ci stanno, senza equivoci. Le attuali associazioni restino come luoghi di studio e di elaborazione, ma ci sia solo un partito.
Non sarà facile, perché in giro c’è un po’ di tutto, tra suoni di campanello e sigle misteriose, e bisognerà pur arrivare a capire chi è con Macron e chi è con Milei. Il tempo però c’è, così come l’appartenenza ad Alde di cui Lde è rappresentante in Italia, ci sono persino dei leader con le idee chiare perché Marattin, Marcucci e Tommasi o chi per lui, con Cottarelli in cabina di regia per i contenuti, sono già un punto di partenza. Gli orizzonti di cui parla Marattin potrebbero essere quello di arrivo.