Le sue prigioniSalvini cerca la condanna per il caso Open Arms, e trasformarla in martirio politico

Si proclama innocente, ma il capo della Lega è l’unico del suo partito e dell’intera maggioranza a sperare in una sentenza severa a Palermo. Altrimenti, in caso di assoluzione, sarebbe solo un personaggio triste che recita il solito copione

Lapresse

È dunque iniziato il conto alla rovescia. La data è il 20 dicembre, pochi giorni prima di Natale. Ci dirà molte cose dell’anno che verrà e dell’Italia che sarà. Il luogo è il proscenio ideale per le cose tragiche che finiscono a farsa, e viceversa: Palermo. Lì si saprà il destino di Matteo Salvini, leader (claudicante) della Lega e attuale ministro dei Trasporti, al centro del caso giudiziario e politico più delicato degli ultimi anni. Salvini è a processo per la sua decisione di «chiudere i porti» quando era ministro dell’Interno nella lunga estate del 2019 (presidente del consiglio era Giuseppe Conte, lo stesso che oggi vuole insegnare al Partito democratico cosa significa essere progressisti).. La Procura di Palermo ha chiesto sei anni di reclusione, per sequestro di persona, omissione e rifiuto di atti d’ufficio.

In particolare, Salvini – che rischia anche un risarcimento per danni di un milione di euro – è accusato di aver impedito per diciannove giorni l’approdo di una nave appartenente all’organizzazione umanitaria spagnola Open Arms, che aveva salvato in più interventi centoquarantasette persone in mare e chiedeva un porto per farle sbarcare in sicurezza, in Italia, per le condizioni «straordinarie, di necessità e urgenza» a bordo.

La nave era in sovraccarico. Molte persone stavano male, alcune avevano tentato addirittura di buttarsi in mare. Salvini, invece, secondo l’accusa, abusò del suo potere e ignorò le leggi internazionali, facendo attendere questi naufraghi, tra cui molti ragazzini, quasi tre settimane. Per la pubblica accusa Salvini doveva concedere un porto sicuro, subito. Per l’imputato, invece, si trattava di «difendere i confini», secondo una formula ripetuta spesso, anche in questi giorni di vigilia.

La nave attraccò alla fine a Lampedusa, il 20 agosto, dopo diversi ricorsi presentati dall’Ong alla Procura di Agrigento. In particolare, fu il procuratore di allora di Agrigento, Luigi Patronaggio, a disporre lo sbarco, sequestrando la nave per il reato di omissione di atti di ufficio. Già in quel decreto il pm scriveva: «L’obbligo di salvataggio delle vite in mare costituisce un dovere degli Stati e prevale sulle norme e sugli accordi bilaterali, finalizzati al contrasto dell’immigrazione irregolare».

Da lì nasce l’azione giudiziaria contro il ministro, che passa, per competenza, a Palermo. Va anche ricordato che, secondo Salvini, si tratta di un processo politico, teso a contrastare le sue politiche contrarie all’immigrazione: «Mai nessun ministro e nessun governo è stato messo sotto accusa per avere difeso i confini del proprio Paese, mi dichiaro colpevole di avere difeso l’Italia e gli italiani». Si sono espressi pubblicamente a difesa di Salvini la premier Giorgia Meloni, il premier ungherese Viktor Orbán e il proprietario di X, Elon Musk, il quale, dopo la requisitoria del pm, ha commentato con queste amene parole: «Quel pazzo di pubblico ministero dovrebbe essere lui quello che va in prigione per sei anni».

Fin qui, i fatti. Venerdì sapremo come andrà a finire. Ma è certa una cosa. Come tutte le cose che avvengono in Sicilia, bisogna stare attenti al gioco degli specchi. Nessuno vuole che Salvini venga condannato.

Non lo vuole Meloni, perché le esploderebbe una grana nel governo in un momento delicato. Non lo vuole l’opposizione, soprattutto dalla parte dei Cinquestelle, perché gli ex grillini hanno l’imbarazzo di rinvangare ancora quell’alleanza gialloverde che fu l’esperimento più singolare della storia alchemica politica italiana. E dove, in tanti, pur negandolo oggi, sostenevano quella linea dura dei «porti chiusi». Si sono dimenticati di quando festeggiavano da un lato la fine della povertà, dall’altro lato la stretta dei decreti sicurezza: «L’Italia grazie a noi affronta a testa alta un problema epocale, come quello dell’immigrazione», diceva il collega ministro di allora, Danilo Toninelli. E Luigi Di Maio, sulle Ong: «Caricano persone, le mettono in barca, arrivano in Italia e cominciano lo show».

La condanna di Salvini non la vuole la Lega, soprattutto la Lega nella versione siciliana, dove, lontano dalle celoduriste pretese padane, il partito che fu di Umberto Bossi è un quieto circolo di piccoli e grandi caicchi del voto, insieme per convenienza e quieto vivere, ed è addirittura la componente meno litigiosa del centrodestra siciliano. Loro lavorano benissimo soprattutto quando Salvini sta lontano dagli affari dell’Isola. Invece, in questi tre anni e passa di processo (ventiquattro udienze, quarantacinque testimoni) lo hanno dovuto sopportare, ma col sorriso, a ogni udienza, perché per ogni udienza c’era un picchetto, un comizio, un qualcosa da organizzare per il capo.

Solo una persona vuole essere condannata. Ed è la persona che si proclama innocente. Proprio lui, Matteo Salvini.

A guardare bene, tutto il suo comportamento porta in questa direzione. È stato lui a politicizzare il processo. È stato lui a portarci dentro il governo, inventandosi anche, durante l’ultima udienza, una triste e sudaticcia manifestazione di protesta davanti all’aula bunker del carcere Pagliarelli e, dove si tiene il processo (lì, dove si è scritta la storia d’Italia nella lotta alla mafia, e ora si scrive la farsa), con tre ministri, Giancarlo Giorgetti, Giuseppe Valditara e Roberto Calderoli venuti a fare i militanti per il capo.

Sì, Salvini vuole la condanna. Di più: non vuole neanche le attenuanti e la condizionale. Vuole la galera, il martirio. Il rancio e la latrina. L’assoluzione, infatti, dopo le italiche quarantotto ore di reazioni e dichiarazioni, lo riporterebbe all’anonimato di questi suoi giorni, tra il giocattolo del Ponte sullo Stretto e la guerra interna della Lega. Un tirare a campare fino al colpo fatale, che arriverà. Non è questione di se, ma di quando e da chi. Luca Zaia? Roberto Vannacci?

Immaginate invece un Salvini condannato. Alla Donald Trump, se vogliamo. O alla Silvio Pellico. La faccia fiera davanti alla telecamere, il video ad hoc, preparato per l’occasione, con le luci scure e le parole fiere e commosse, quel «tintinnar di manette» che avrebbe il suono di un dolce carillon. E lui a evocare i giudici comunisti, l’Italia che si fa comandare dalle Ong. E poi, ancora, l’idea dei manifesti, ma perché no, anche delle tazze – sarebbero un gadget ricercatissimo a Pontida e non solo – con la sua faccia e la scritta «Wanted». E il vittimismo da interpretare nei salotti in tv, per fare salire i sondaggi e dettare l’agenda della campagna elettorale da qui a quando si voterà. Magari ci viene fuori un libro di memorie, una serie su Netflix. Salvini condannato è il politico del futuro. Salvini assolto è un triste guappo che recita il suo solito copione.

Salvini leader delle vittime della mala giustizia che più mala non si può, quella politicizzata dalle toghe «comuniste». E ironia della sorte lo farà, se condannato, al minuto zero della sua nuova vita da «martire per la difesa dei confini d’Italia», proprio nella terra e nella città che più di tutti, in questi anni, ha pagato un tributo di sangue per i suoi eroi che l’Italia, la sua dignità, hanno cercato di difenderla davvero.

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