Tutti per uno, Putin per tuttiL’Ue non trova l’unità per sanzionare il governo georgiano

Mentre continuano senza sosta le proteste a Tbilisi contro la deriva filorussa di Sogno georgiano, a Bruxelles i Ventisette falliscono ancora una volta nell’impresa di far fronte comune contro il Cremlino

AP/Lapresse

«Per le sanzioni, serve che tutti i Ventisette siano d’accordo, ma non ci siamo ancora». Al suo primo Consiglio Affari esteri, la nuova Alta rappresentante dell’Unione europea per la politica estera e di sicurezza comune, Kaja Kallas, si sta confrontando con quegli stessi ostacoli contro cui, nel corso degli ultimi cinque anni, si è scornato anche il suo predecessore Josep Borrell.

Che il bersaglio sia la Russia di Vladimir Putin o la Georgia di Bidzina Ivanishvili, fondatore e burattinaio del partito di governo Sogno georgiano, al potere dal 2012, poco cambia. È sempre complicato – talvolta impossibile – per Bruxelles colpire con misure restrittive efficaci le personalità e le entità che minano, agli stessi confini dell’Unione, la sicurezza dell’intero continente.

Ieri (16 dicembre) questa difficoltà è apparsa plasticamente quando i ministri degli Esteri degli Stati membri hanno adottato il quindicesimo pacchetto di sanzioni contro la cosiddetta «flotta fantasma» del Cremlino, ma non sono riusciti a trovare un’unità di intenti nemmeno nominalmente per quanto riguarda le sanzioni contro la leadership del governo georgiano, che da settimane sta reprimendo brutalmente il dissenso per le strade di Tbilisi e di altre città.

I rapporti di soprusi e violenze diffusi e sistematici nel Paese caucasico si sprecano, ma i Ventisette non sentono ancora l’urgenza di comminare sanzioni individuali contro i quadri di Sogno georgiano, a partire dal premier Irakli Kobakhidze che non solo non sta facendo nulla per fermare il giro di vite sui manifestanti ma continua a complimentarsi con l’operato degli apparati di sicurezza, chiamandolo «prevenzione» anziché «repressione».

A dire la verità, come sempre, il fronte degli Stati membri è tutt’altro che monolitico. Da una parte ci sono i «falchi», soprattutto i tre Paesi baltici (Estonia, Lettonia e Lituania), che hanno già imposto unilateralmente una serie di misure restrittive nei confronti di almeno una decina di individui responsabili a vario titolo della degenerazione della situazione a Tbilisi.

Dall’altra parte ci sono gli amici di Putin, che lavorano dall’interno dell’Unione europea come dei cavalli di Troia. Si tratta del premier ungherese Viktor Orbán e del suo omologo slovacco Robert Fico, che istruiscono i loro ministri di bloccare qualsiasi iniziativa comunitaria che possa danneggiare troppo platealmente il Cremlino, la sua guerra di aggressione in Ucraina o le sue attività di destabilizzazione nello spazio post-sovietico.

Così, dove a Bruxelles serve l’unanimità delle cancellerie, riescono puntualmente a bloccare la farraginosa macchina comunitaria e a dare un po’ di respiro allo zar di tutte le Russie. È quello che è accaduto ieri con la proposta, la prima avanzata dall’ex premier lettone Kallas nel suo nuovo ruolo di capo della diplomazia a dodici stelle, di sanzionare i vertici dell’esecutivo georgiano. «È un’assurdità, un oltraggio, non c’è nulla che lo giustifichi», aveva dichiarato il titolare degli Esteri magiaro Péter Szijjártó annunciando il veto di Budapest. Che è puntualmente arrivato, insieme a quello di Bratislava. L’Alta rappresentante si è comunque detta «ancora ottimista» che qualche tipo di «soluzioni diverse» possano essere raggiunte dagli Stati membri.

Dove invece non è richiesta l’unanimità, le cose si muovono più velocemente aggirando l’opposizione dei cani da guardia europei degli interessi di Mosca. Ieri i governi nazionali sono riusciti a decidere di incaricare la Commissione di elaborare una proposta per sospendere il regime di liberalizzazione dei visti diplomatici ai rappresentanti del governo georgiano, oltre che per declassare i rapporti politici tra Bruxelles e Tbilisi fintanto che l’esecutivo di Kobakhidze non tornerà sui suoi passi. Stando al resoconto di Kallas, è stata «una discussione molto intensa» in cui si ha registrato «molta volontà di fare di più», anche se ha ammesso che l’approccio privilegiato da diversi governi nazionali è quello di «aspettare per vedere quali saranno i prossimi sviluppi».

Ma è evidente che si tratta di una misura cosmetica, che difficilmente avrà reali impatti sul sistema di potere consolidato negli anni dall’oligarca Ivanishvili (che nel frattempo si è trasferito in Russia, a scanso di equivoci). Il rischio, per l’Europa, è quello di non riuscire ad agire in tempo per fermare il pericoloso scivolamento della Georgia lungo un piano inclinato che appare già ripido, costituito da due binari paralleli.

Nelle piazze, le proteste vanno avanti ininterrottamente da tre settimane, cioè da quando il governo ha annunciato lo stop dei negoziati di adesione all’Ue fino almeno al 2028. Tra quattro anni scadrà la legislatura inauguratasi dopo le contestatissime elezioni dello scorso 26 ottobre, che a causa dei brogli sistematici sono state denunciate come irregolari dalle opposizioni parlamentari e dalle organizzazioni della società civile.

Dal 28 novembre, le violenze di piazza – soprattutto a Tbilisi, lungo viale Rustaveli dove ha sede il Parlamento nazionale, ma non solo nella capitale – non accennano a diminuire, con le forze dell’ordine che attaccano indiscriminatamente manifestanti, giornalisti e politici dell’opposizione. Il mediatore civico nazionale, Levan Ioselaini, si è spinto fino a sollevare il dubbio che le azioni della polizia, incluso il maltrattamento dei detenuti, possano configurare dei reati assimilabili al crimine di tortura.

Ma lo scontro frontale ha raggiunto anche i palazzi, con i massimi vertici dello Stato georgiano in rotta di collisione tra loro. Le opposizioni parlamentari stanno boicottando i lavori dell’Aula da un mese e mezzo e si sono strette intorno alla figura della presidente uscente della Repubblica, l’europeista Salomé Zourabichvili che Linkiesta ha simbolicamente insignito del premio di «donna europea dell’anno».

Il suo mandato scade il 29 di questo mese, ma lo scorso 14 dicembre il Collegio elettorale – composto da tutti i centocinquanta deputati di Tbilisi più altrettanti rappresentanti delle amministrazioni locali, e dunque egemonizzato da Sogno georgiano – ha nominato come suo successore l’ex calciatore Mikheil Kavelashvili, fondatore della formazione ultranazionalista Potere del popolo, nato come costola del partito-macchina di Ivanishvili e la cui retorica è ancora più ferocemente anti-occidentale. Zourabichvili ha ripetuto in varie occasioni che non intende farsi da parte poiché non riconosce legittimo il Parlamento che ha eletto Kavelashvili, accendendo la miccia per un aggravarsi del conflitto istituzionale che, ad oggi, non vede punti di caduta.

Il piccolo ma strategico Paese caucasico sembra avvicinarsi a grande velocità all’orlo dell’abisso, nella quasi completa inerzia di un’Unione europea che, esattamente un anno prima dell’elezione di un ex calciatore di estrema destra a prossimo capo di Stato, aveva concesso a Tbilisi lo status di candidato all’adesione. Ma quel cammino è stato interrotto indefinitamente già la scorsa estate, come segnalato dallo stesso esecutivo comunitario in occasione della presentazione del pacchetto di allargamento 2024, in cui Bruxelles esprimeva forti preoccupazioni per la situazione dello Stato di diritto in Georgia e per lo slittamento sempre più marcato verso l’orbita di Mosca.

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