Breve riassunto di tutte le balle precedenti, raccontate dalla nostra presidente del Consiglio nell’ormai celebre video dedicato al caso Almasri: «Non era vero che avesse ricevuto un avviso di garanzia; non era vera la qualifica di “politico di sinistra” affibbiata all’ex camerata manipulitista Luigi Li Gotti; non era vero che la Corte penale internazionale avesse aspettato “dopo mesi di riflessioni” l’ingresso in Italia di Almasri per spiccare un mandato d’arresto a suo carico; non era vero che la richiesta della Corte dell’Aja non fosse stata trasmessa al ministro della Giustizia; non era vero che la Corte d’Appello avesse scarcerato il galantuomo libico per questo sciagurato errore; non era infine vero che il ministro Piantedosi avesse deciso di espellerlo per ragioni di sicurezza nazionale».
Avendone parlato ampiamente già ieri, ho ricopiato l’elenco, per pigrizia, dall’articolo di Carmelo Palma, su Linkiesta, che segnalo anche per l’utile approfondimento sulla questione giuridica. In estrema sintesi: la legge prevede che per mandare a processo il presidente del Consiglio o un ministro occorra comunque l’autorizzazione del parlamento, che può negarla anche qualora si ritenesse il reato sussistente, nel caso in cui «l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di governo».
Dunque non ha alcun senso invocare preventivamente la ragion di Stato come argomento per fermare l’inchiesta, dal momento in cui, osserva giustamente Palma, il «filtro della ragione di Stato è stato posto, dalla Costituzione e dalla legge, a valle della fase istruttoria, proprio perché la ragione di Stato implica una assunzione di responsabilità politica del parlamento, non l’intoccabilità del governo». Anche per invocare la ragion di Stato, si potrebbe concludere, bisogna essere capaci di ragionare.
A questo ottimo argomento ne vorrei aggiungere però un altro, a partire dalla notizia di ieri riguardante il vertice sull’immigrazione tenuto in mattinata a Palazzo Chigi, in cui si sarebbe «fatto il punto» su alcune informazioni di intelligence secondo cui «l’improvviso picco di sbarchi registrato nelle ultime settimane sarebbe legato ad un vuoto di potere prodottosi su parte della costa della Tripolitania, con milizie che hanno preso il controllo di alcuni porti ed hanno pensato di poter fare ingenti guadagni facendo partire tante imbarcazioni in pochi giorni».
Non so se è chiaro. Nel suo video Meloni ha ripetuto il ritornello del «non sono ricattabile», già usato a suo tempo in polemica con Silvio Berlusconi, ma in questo caso, come le è stato giustamente fatto notare da Matteo Orfini e da tutto il Pd, è legittimo dubitarne. O per meglio dire, è legittimo sospettare che a essere sotto ricatto dei trafficanti libici, più che Meloni, sia l’Italia intera.
La ragion di Stato, a questo punto, imporrebbe di togliere il paese da una posizione così sgradevole, in cui è stato invece invischiato sempre più dalla propaganda del governo sul crollo degli sbarchi e dalla sua politica di accordi con aguzzini e dittatori di tutto il Mediterraneo (dalla Libia alla Tunisia). Una politica, è giusto ricordarlo, iniziata da un governo di centrosinistra e oggi largamente condivisa in Europa, e in particolare dalla presidente della Commissione Ursula von der Leyen.
A conferma del fatto che si tratta di problemi tremendamente complicati, che hanno una lunga storia e in cui le responsabilità sono diverse e diffuse, ma che proprio per questo andrebbero affrontati con serietà. L’impressione, invece, è che il governo Meloni sia rimasto vittima della sua stessa propaganda, della sua infatuazione trumpiana e del suo trumpianissimo disprezzo per la logica e per l’elementare verità dei fatti. E ora sia costretto a buttarsi in avanti, alzando irresponsabilmente i toni e la posta, per non cadere all’indietro.