Hic sunt leonesSimboli e posizioni internazionali

Il legame tra la simbologia identitaria di uno Stato e la posizione di questo in campo  internazionale, nel senso di sua rilevanza, risulta contorto e di non facile interpretazione.  Spesso i simbo...

Il legame tra la simbologia identitaria di uno Stato e la posizione di questo in campo internazionale, nel senso di sua rilevanza, risulta contorto e di non facile interpretazione. Spesso i simboli estrinsecano quanto uno Stato aspiri a promanare della propria immagine nel mondo. Pensiamo al laicismo nazionalista turco di Kemal, o alla luminosa grandeur francese, che trovò in De Gaulle uno dei suoi più fulgidi alfieri.

A volte i simboli diventano tali in quanto creatori, o plasmatori, dell’identità di uno Stato, strutturando un solido sistema di valori che permea le azioni in campo internazionale, dandone una coerenza di fondo, rendendo quello Stato stesso indissolubilmente legato a una certa rappresentazione di sé. Gli Stati Uniti d’America ne sono forse la massima esemplificazione, con un “Destino manifesto” che prima ha condotto il Grande Paese all’inevitabile primato globale, complici le disgrazie altrui, e poi lo ha portato al ruolo, a volte ingrato, di tutore di una parte del mondo, almeno fino al 1991. Dall’altro lato della barricata, l’Unione Sovietica si è barcamenata nel medesimo ruolo per la controparte comunista, con risultati infine mediocri, sopprattutto per se stessa.

Sorge allora spontanea una domanda: quanto è conveniente per uno Stato, nell’arena internazionale, rimanere fedelmente ancorato alla propria retaggio di valori, morali o politici che essi siano, nell’evoluzione della Storia?. Si sa che ancoraggio ed evoluzione difficilmente vanno a braccietto e se si guarda indietro, giusto nel XX secolo, si percepisce come certi pantani quali il Vietnam per gli USA e l’Afghanistan (sabbie mobili per tutti) per l’URSS, forse non si sarebbero verificati se i due macroattori globali non avessero a volte sovrapposto con non curanza la propria proiezione ideologica alla loro proiezione strategica, quasi mai collegate.

Di tutti gli attori internazionali di un certo rilievo, forse solo il Regno Unito, nella sua pragmaticità britannica, ha percepito che valori ideologici e realismo politico non vanno d’accordo quando si tratta di programmare una politica estera inevitabilmente condizionata dall’evoluzione storica della propria posizione nel mondo e di quella altrui. Il Regno Unito ha sostenuto con una certa dignità il proprio ridimensionamento, restando (a volte costretto) al passo con i tempi e guardando alle opportunità del caso. Anche la Cina, il Paese di Mezzo, ha mantenuto realisticamente una posizione di opportunità e di “coerente incoerenza politica” dal 1949 ad oggi, anche aiutata dalla sua posizione subordinata per lungo periodo. Ora è il momento in cui potrebbe rischiare di più, chiamata ad esercitare quel ruolo di potenza che molti attendono di vedere.

E il nostro Paese? Dall’Unità ad oggi è stato un continuo rollio tra una posizione di basso rilievo nei grandi della terra e una di prestigio tra i pesi medi. Il “bagno di sangue” di Crispi e ” gli otto milioni di baionette” di mussoliniana memoria ben evocano l’errore di presunzione di uno Stato che, se avesse accettato il proprio condizionamento dovuto alla Storia, alla posizione geografica e alle risorse a disposizione, presto avrebbe finito per ritagliarsi quella posizione pragmatica di ponte tra le due sponde del Mediterraneo, come interlocutore colto e privilegiato tra Europa e altri continenti, che intuì poi negli anni Cinquanta Enrico Mattei e in seguito pochi altri.

L’affanno internazionale dell’Italia, che pure ripudia, nella maggior parte della sua popolazione, l’ostentazione, finanche l’elaborazione di simboli nazionali, per il sacro terrore di derive nazionalistiche, è per certi versi inspiegabile. Non legati dall’amore per Garibaldi, dall’esaltazione per Mazzini e di altri, avremmo potuto avere mano libera nel tracciare una politica di spregiudicata accortezza e ,invece, siamo caduti nell’angoscia della posizione, nell’affannarsi per ricercare un “Posto al Sole”.

L’assenza di una simbologia nazionale, tuttavia, ha dimostrato qualcosa di sè nel tenere in piedi il Belpaese nelle fasi difficili delle Due Grandi Guerre, quando la sopravvivenza ha vinto sulla coerenza. Certo ancora oggi ci trasciniamo il danno di immagine creato allora. Difficile fardello di cui in Italia pochi si curano e molti si lamentano . Ma nell’agone internazionale, a volte, conta più la sopravvivenza a fine della battaglia, che una morte eroica nella pugna. Bisogna solo saperne pagare il prezzo e conviverci.

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