Il libro ritrovato. Consiglieri di paginePaesaggio: termometro della cattiva politica

di Barbara Bernardi Non amo la parola territorio, parola chiusa che sa di geometria, estensione, asetticità, misura, calcolo. Preferisco invece la parola paesaggio, parola aperta che sa di identità...

di Barbara Bernardi

Non amo la parola territorio, parola chiusa che sa di geometria, estensione, asetticità, misura, calcolo. Preferisco invece la parola paesaggio, parola aperta che sa di identità, intenzione, atmosfera, carattere, natura e cultura.
Quando si studiano e si progettano i luoghi, la prima parola è necessaria per comprendere l’oggettività dei dati, ma la seconda è la vera sostanza dei ragionamenti e il fine delle azioni.
Le due parole sono spesso scambiate, usate come sinonimi anche all’interno di ambiti che, invece, avrebbero l’obbligo di distinguere ed educare alla comprensione.

Questo conflitto è particolarmente evidente nella gestione politica dei luoghi, straordinari e quotidiani, che caratterizzano la qualità del paesaggio italiano, in cui noi tutti abitiamo e lavoriamo.
Ne ho avuto l’ennesima riprova partecipando recentemente al dibattito attorno al PAT (Piano di Assetto del Territorio) che si è svolto nel paese dove abito.
Il PAT è un documento che, riprogettando il territorio comunale, diventa strumento per comunicare concretamente la filosofia dello sviluppo scelto, i valori paesaggistici, storici, sociali e comunitari che si intendono perseguire, le modalità individuate per costruire o rafforzare l’identità dei luoghi in cui abitano e si formano le persone.
Il PAT non è solo strumento urbanistico ed economico a favore dell’imprenditoria edile, ma è anche strumento culturale, sociale, antropologico.
Trovo fondamentale, allora, capire come, oltre ai dati territoriali, ambientali, geologici, economici e demografici, si raccolgano i dati della dimensione storica, paesaggistica, sociale e umana che sono parte fondamentale nella progettazione e nello sviluppo locale.
Non basta solo ragionare di volumi.

L’identità di una comunità è motore fondamentale per lo sviluppo e per la costruzione della rete sociale, che diventa collante per tutti i diversi settori specifici: la gestione e la progettazione dei luoghi va immaginata proprio per cercare di rafforzare quest’identità.
Come si stabilisce il valore del legame di una comunità con un determinato luogo?
Come si stabilisce il valore di un campo, di una strada, di una porzione di collina?
Bastano solo i dati tecnici o anche la memoria degli abitanti e i legami, che il tempo ha instaurato con questi luoghi, hanno la loro importanza?
E come si raccolgono queste informazioni se non si coinvolgono attivamente le popolazioni?

Lo ripeto, i luoghi non possono diventare solo merce di scambio economico, ma sono la forma concreta dei principi e dei valori di chi quei luoghi amministra e vive.
In questo senso l’attenzione al paesaggio – che non è solo dimensione naturale, ma sempre anche culturale – diventa aspetto centrale: i paesaggi sono l’esito di tutte le azioni che l’uomo e le civiltà hanno compiuto in un territorio, portano le tracce della memoria agricola, storica, industriale, abitativa, sociale e culturale, sono lo specchio in cui una comunità trova e riconosce se stessa.
I buoni paesaggi sono l’esito dei buoni governi. Così come, ahimè, i cattivi paesaggi sono l’esito dei cattivi governi.

Eppure ancora oggi ci sono amministratori locali che affermano che il PAT comunale può diventare una finanziaria, ma anche che potrà finalmente accontentare le imprese edili locali.
Di nuovo la stessa filosofia che, a partire dal secondo dopoguerra, ha concorso a deturpare il territorio italiano, impoverendo i paesaggi, disperdendo le identità in un indifferenziato progetto urbanistico, rendendo sempre più fragile la nostra penisola che frana, si allaga, si riempie di cemento.
Troppe volte i vecchi piani regolatori sono stati strumento di cassa, opportunità delle amministrazioni per prendere accordi con i poteri del settore immobiliare ed edilizio.
La terra, le città, la campagna, i paesaggi e gli abitanti che li abitano sono stati strumenti di scambio nei rapporti di potere politico ed economico: affari di pochi con i beni di tutti.
Ma, va detto, troppe volte singoli cittadini – in particolare nelle realtà locali – si servono delle amministrazioni per i propri affari e premono per vedere risolte le loro questioni: una casa da trasformare, una terra da rendere edificabile, un capannone da costruire velocemente.
Di nuovo la terra e i luoghi di tutti al servizio di interessi di singoli.

Si può portare al centro della politica una filosofia progettuale più ampia e complessa? Si può cercare uno sviluppo territoriale che non sia affare della sola amministrazione, ma anche un fatto che riguarda tutti? Si può finalmente dare valore alla cultura esperienziale di chi abita i luoghi e non solo a quella esperta dei tecnici?

Antonio Cederna nella raccolta dei suoi interventi, I vandali in casa, scrive:

Vandalo è chi distrugge l’antico. Ma non solo. Vandalo è chi distrugge l’antico perché la città assuma una fisionomia più consona a interessi privati e non pubblici, perché il suo territorio venga spremuto al pari di una risorsa dalla quale ricavare quanto più reddito possibile. La degradazione della storia e della sua eredità, la manomissione della natura non sono solo violazioni inammissibili di quanto il passato ha elaborato. Sono anche uno dei modi di essere dell’Italia in quegli anni.

Cederna parla dell’Italia degli anni ’60 e ’70 e il libro descrive un paese che sarebbe potuto essere diverso da com’è. Oggi molte cose sembrano identiche, ma la sensibilità comune è cambiata, così come la capacità di informazione dei cittadini e la voglia di essere parte attiva nelle decisioni.

Quello che ancora manca è una politica che indichi la strada, spieghi quale paese intende costruire, quali prospettive e orizzonti voglia far intravedere.
Una politica che aiuti i suoi cittadini a progettare, a immaginare e costruire percorsi comuni.
Una politica che, amministrando, realizzi i luoghi dell’abitare, i luoghi in cui diventare cittadini. Cittadini, però, diversi da ora, che usino i luoghi, non solo come strumento per gli interessi personali, ma come mezzo per costruire e migliorare la comunità di tutti.

Perché le cose cambino e ci si occupi di queste questioni con metodi più competenti, trasparenti ed eticamente condivisi, non occorrono solo nuove amministrazioni, ma anche nuovi cittadini.
Una politica migliore di noi, a cui tendere e non da cui scappare.
È ancora presto?

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