Hic sunt leonesEnrica Lexie: un mondo troppo grande per l’Italia?

Potrebbe apparire inconsueto tornare a scrivere dopo mesi su questo blog inquadrando un argomento che ha avuto così diffusa analisi e ricerca come la questione dei Fanti di Marina italiani della na...

Potrebbe apparire inconsueto tornare a scrivere dopo mesi su questo blog inquadrando un argomento che ha avuto così diffusa analisi e ricerca come la questione dei Fanti di Marina italiani della nave Enrica Lexie e la diatriba con l’India per la vicenda del 15 Febbraio 2012. Tuttavia, oltre ai numerosi reportage di cronaca e ai contributi giuridici prettamente di diritto marittimo e internazionale, poco o niente è stato sviluppato per quanto concerne la posizione internazionale dei due Paesi coinvolti, l’India e l’Italia, vale a dire la percezione di potenza che essi cercano di proiettare tramite la propria politica internazionale. Tali apparenti sfumature, in verità gli argomenti centrali di questo blog, hanno trovati sporadici riferimenti solo in alcuni spunti improntati a un grossolano nazionalismo, non scevro da palesi generalizzazioni accomodanti.

La politica estera italiana e indiana per certi versi si rassomigliano, rispondendo entrambi a dettami internazionali imposti dalla posizione geografica occupata nello scacchiere internazionale. Sia per l’Italia sia per l’India il risvolto marittimo rappresenta un’imprescindibile valvola di sfogo e raccordo per i flussi economici sia in entrata sia in uscita, ma mentre l’Italia arranca nel mantenere un barlume di centralità nel Mediterraneo, l’India, dal canto suo, negli ultimi anni ha posto in essere numerosi tentativi per disporsi come punto di riferimento non trascurabile nell’area dell’Oceano Indiano; scopo primario la salvaguardia delle proprie rotte commerciali e di comunicazione ( le “SLOCs”, “Sea Lines of Communication) e il puntellamento della preponderante ascesa marittima della Cina, che considera l’Oceano Indiano come il “suo” mare occidentale.

A ben vedere, quindi, una “comune” contestualizzazione geo-strategica sostenuta tuttavia da un’impostazione ideologica nazionale molto divergente. Mentre in Italia si è speso tempo a battagliare, particolarmente tra alcune testate giornalistiche, sull’eroicità dei nostri Fanti di Marina, che pure sono grandissimi professionisti e convinti patrioti, arrivando a vere e proprie diatribe sulla “cattiveria” o meno dell’India, il sub-continente ha dimostrato un fronte molto più compatto di ostilità nei confronti dei “Marò”, anche se non esente da una buona dose di “sindrome terzomondista”.

Ad ogni modo, la querelle “ indiani selvaggi vs italiani colonialisti” ci insegna qualcosa: mentre noi Italiani sembriamo ancora incagliati nel dubbio se aver commesso o meno un “errore nella fase di ingaggio da parte del nostro Nucleo Militare di Protezione, anche se giustamente critici della gestione da parte dell’autorità indiana, l’Unione Indiana sembra aver invece guadagnato “ un’ulteriore patente di potenza” ( come sapientemente scrive Armellini in “ Affari Internazionali”). Per certi aspetti, sembra quasi che l’India aspettasse quasi con trepidazione una prova di “vigore internazionale”, un’esigenza che traspare anche dal suo impianto giuridico marittimo, che mira ad allargare l’influenza del sub-continente.

In concreto, stride il contrasto tra l’opaca legge 130 italiana sui nuclei di protezione a bordo, che presenta un deprecabile dualismo tra l’azione del comandante della nave e il team di sicurezza militare soggetto alle regole d’ingaggio del Ministero della Difesa e alcuni strumenti giuridici indiani, come “l’Indian Maritime Zones Act” del 1976 o il “ Regulation of Fishing by Foreign Vessels Act” del 1981, che confliggono in sostanza per alcuni aspetti con quanto poi sancito a Montego Bay nel 1982.

I nostri militari sono rimasti incastrati in un quadro normativo troppo e volutamente confuso, loro che da militari seguono precipuamente le disposizioni, a causa di una malcelata volontà romana di non prendersi determinate responsabilità ( un approccio francese sarebbe stato sicuramente diverso, con per esempio un “scollamento” tra naviglio e nucleo militare, quest’ultimo prelevabile con aviazione qualora la nave fosse rientrata in porto). E l’India? Il Paese asiatico è impegnato in attività di pattugliamento anti-pirateria nella parte est e nord del Mare Arabico e tiene moltissimo ad affermarsi come membro permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite; tuttavia sempre maggiore risulta la sua pretesa di controllo della Zona Economica Esclusiva, per quel fenomeno di “ creeping jurisdiction” che porta piano piano la ZEE de facto ad essere assoggettata. E’ bene ricordare che nella ZEE la navigazione internazionale è condizionata dall’obbligo di rispettare i diritti funzionali dello Stato costiero, tra cui la pesca.

La vicenda “ Enrica Lexie” è avvenuta a 20,5 miglie nautiche dalla costa indiana, quasi al confine della Zona Contigua del Paese asiatico, zona che l’India ha cercato di estromettere dalla “Area Rischio Pirateria” per poter sottoporre al proprio controllo il traffico dei mercantili stranieri in zone “pericolose”. Una “blue water navy” in costruzione e la propensione di grande e indipendente potenza pienamente dispiegata: ecco quello che l’India vuole in questi anni. L’approccio aggressivo in ambito marittimo sembra avvalorato anche dal dispositivo della sezione 3 e 4 dell’ “Indian Penal Code”, per il quale è legittimo sottoporre a giurisdizione indiana una persona, anche straniera, che ha commesso un crimine a bordo di una nave registrata in India, e dalla “section 188A” dell’ “Indian Criminal Procedure”, che estende la giurisdizione indiana fino a 200 miglia ( come la tutela cinese per le proprie coste o la propensione americana durante il Proibizionismo).

Fin dall’indipendenza, l’India ha visto nella sua debolezza marittima una delle cause della propria condizione di Paese non pienamente sviluppato. L’ “Indian Maritime Doctrine” incarna nei suoi concetti chiave i pensi di Nehru e di Panikkar esemplificando il concetto base di “ India as a never sinking aircraft carrier, a dagger into the waters”, una visione pan-dinamica che interpreta l’oceano Indiano alla stregua di un “Mare Nostrum” romano. Cosa fa l’Italia invece, nel suo mare? Mussolini sosteneva che l’Italia fosse una vera e propria “portaerei” del Mediterraneo, affermazione audace priva di fondamenti militari, nondimeno questo poteva anche essere vero dal punto di vista geografico e sul mito del “Mare Nostrum” molto è stato speso dalla Geopolitica Italiana, a partire dal 1939 con Roletti e Massi. Ora, tuttavia, la situazione appare drasticamente diversa. Non consideriamo il Mediterraneo e le vie di comunicazione marittima come nostro primario “core interest” e i risultati si vedono, a partire dalla poca chiarezza delle leggi di riferimento e della sterile proiezione di potenza che attuiamo ( pur tenendo conto delle nostre medio-piccole dimensioni). In aggiunta dobbiamo ammettere che, data come certa l’arrogante gestione da parte indiana, abbiamo noi stessi, con la nostra incuria e la nostra “approssimazione internazionale” contribuito a mettere due professionisti come Latorre e Girone nella situazione in cui ora si trovano. Diciamoci pure la verità: ci ha dato fastidio e parecchio, che a farci questo “scherzo” siano stati gli Indiani, proprio perchè la nostra mentalità internazionale, quella per cui l’India non sarebbe una potenza e gli USA avrebbero dovuto aiutare noi invece di essere “neutrali” per non turbare gli Indiani, invece di essere proiettata e adattabile al futuro, è ancorata a schemi sorpassati.

Se non siamo in grado comprendere che paesi come l’India si comporteranno sempre più nella stessa maniera, se non individueremo e comprenderemo i segnali d’emersione di potenza delle nuove realtà, se manterremo scollata l’attività economica dal settore della sicurezza, non riusciremo più a “uscire” dal Mediterraneo e veramente questo mondo ci apparirà troppo grande per l’Italia. Ancora una volta il realismo sembra la chiave di volta. La vela.

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