Pare che “speranza” sia una delle parole preferite da papa Francesco (“non lasciamoci rubare la speranza” è uno dei passaggi dell’ultima enciclica sulla fede, come anche della seconda enciclica di Ratzinger). Non è semplice ragionare di un concetto tanto vasto, personale e impalpabile.
Ieri un mio amico commerciante mi faceva notare che, a forza di parlare di crisi dei consumi, la gente smette effettivamente di comprare anche quando ne ha la possibilità. Lo diceva pure Silvio Berlusconi mentre era al Governo. E Berlusconi, tra le pieghe di discorsi semplificati e un po’ cialtroneschi, ha sempre avuto una grande capacità di sintonizzarsi con il sentimento degli italiani, spesso degli italiani più poveri.
Se proviamo ad allargare un po’ il campo, è tutta una generazione che si definisce nella “perdita della speranza”. Siamo i primi a campare peggio dei nostri genitori – questo si sente ripetere – e certamente facciamo fatica a progettare e prefigurare le nostre esistenze. Certo, i nostri nonni e genitori hanno vissuto in contesti molto più poveri, ma avevano la sensazione di progredire, mentre noi abbiamo la percezione di un benessere che va scemando.
A ben vedere, dunque, si tratta proprio di un problema di speranza, come ha colto facilmente Matteo Renzi, assai capace di rivolgersi ai giovani italiani.
Proviamo dunque a schematizzarla, questa perdita di speranza generazionale:
– I soldi sono finiti. Debito pubblico, crisi economica e perdita d’importanza dell’Occidente consegnano all’Italia una prospettiva incerta e un ruolo assai meno strategico rispetto al Dopoguerra.
– Tutto ciò si riflette in un mercato del lavoro che spesso non consente di avanzare, programmare, mettere su famiglia e magari mettere qualcosa da parte per i figli e le proprie passioni.
– Se nel Dopoguerra l’Italia ha vissuto una lunga stagione di lotte e di espansione dei diritti, oggi si ha la sensazione che i diritti tendano a restringersi. Talora la loro difesa si tinge di conservatorismo e testimonia una difficoltà a interpretare una realtà trasformata.
– Il centro del mondo non è più qui. L’Europa è in crisi (e noi più di tutti) e la ricchezza si sposta verso Asia e America. Siamo alla periferia dell’impero, custodi di una ricchezza e di un passato glorioso.
– Il dibattito pubblico non parla che di tagli. Per carità, sacrosanti. Ma certamente non proprio esaltanti, tanto più a paragone di generazioni precedenti che hanno speso tanto. Come sa qualunque imprenditore, è difficile credere veramente in un progetto se si parte dalle sforbiciate che si vogliono fare.
– La rivoluzione tecnologica. Internet è una straordinaria opportunità umana e professionale, ma che ha forti implicazioni culturali e psicologiche. Non è detto che produca più felicità (soprattutto nei cosiddetti “nativi digitali”) e certamente rischia di produrre maggiore solitudine.
La politica non può essere ridotta a buona amministrazione (magari ce ne fosse di più!). Per ripartire ci vuole una grande tensione ideale e uno sforzo culturale. Bisogna rompere gli schemi consolidati e non parlare solo di soldi e di soldi che non ci sono. Sembra qualcosa di astratto, invece è la cosa più concreta che c’è.