Hic sunt leonesLa Batracomiomachia italiana e la sua dimensione estera

Non tragga in inganno la fermezza dimostrata dal Governo italiano nel caso siriano, frutto anche della strettissima aderenza all'articolo 10 della Costituzione; è stata l'ennesima estate orribile p...

Non tragga in inganno la fermezza dimostrata dal Governo italiano nel caso siriano, frutto anche della strettissima aderenza all’articolo 10 della Costituzione; è stata l’ennesima estate orribile per la politica estera e la proiezione internazionale, quel che ne resta, del Bel Paese. Raccontare, come la definisce Sergio Romano, “ la nostra vocazione a finire nei pasticci” sta diventando fin ripetitivo, quai stucchevole, ma quanto avvenuto nel celebre “pasticcio kazako” merita qualche riga di analisi per sottolineare alcuni punti tristemente rimarchevoli.

Il caso riguardante Alma Sabalaeva e Muktar Ablyazov, quest’ultimo ora agli arresti in Francia, è quanto mai dimostrativo della tipica intelligenza italiana, districante, singola, ma assolutamente non collaborativa, elemento che si unisce, almeno negli ultimi vent’anni, a una preoccupante “sindrome del breve periodo”. Il caso Ablyazov, oltre che denotare, come già per il caso dei Marò, una battaglia faziosissima e interna tra i media italiani, fra i sostenitori o meno della bontà del regime di Nazarbayev, mette a nudo uno dei mali atavici del nostro Paese: manca una catena di collegamento tra politica estera e interna: insomma, per dirla come Mammarella, “ il processo di formulazione delle politiche è indeterminato nei modi e vago nel suo percorso”.

L’instabilità politica è sicuramente concausa di questo problema oltre che carenza endemica del nostro sistema; essa, abbinata a una sostenuta perifericità della politica estera nel quadro politico, porta genericità e impreparazione nel personale politico, determinando un vero e proprio pericolo per la realizzazione di politiche e la presenza attiva sul piano internazionale. Conseguentemente, l’eccessiva centralità della tecnocrazia amministrativa dei vari ministeri, l’unica entità realmente stabile, depaupera l’importanza cardine dei vari gabinetti. Non è un caso che nel dossier kazako – a proposito, si dice kazako in generale o per evidenziare l’etnia; kazakistano è detto l’abitante dello Stato- i gabinetti del Ministero degli Interni e degli Esteri abbiano fatto ben magra figura. L’Italia, che in fin dei conti non è né un grande Stato amministrativo centralizzato come la Francia, né tanto meno un’entità decentrata come quella statunitense, ha visto i vari Pistelli, Bonino, Alfano, Cancellieri, Benassi e Procaccini alimentare un vero pandemonio di intrecci e di ammissioni di ignoranza, con il Ministro degli Interni in prima fil nell’alzare gli scudi, ritenendo opportuno, per giustificarsi, di attaccare pubblicamente il mal funzionamento del Ministero e di essere stato bypassato da funzionari di livello inferiore, con l’obiettivo dichiarato di motivare la scollatura tra le forze dell’ordine impegnate nell’Affaire “Sabalaeva” e il vertice del ministero. Per citare ancora il sempre lucidissimo Sergio Romano, “vincere contro questi connazionali è una fatica di Sisifo”.

Criticare pubblicamente e, ancor peggio, in ambito internazionale, un organo del proprio Paese, quale un apparato ministeriale, per salvare la sorte di una o due persone, dimostra ulteriormente, se ce ne fosse ancora necessità, il problema enorme in cui ci si trova.

Non entriamo qui nel merito della faccenda kazaka vera e propria, se l’Italia abbia fatto un’imprudenza o meno, se Ablyazov sia un dissidente oppure un truffatore ( in paesi come il Kazakistan il confine è molto labile, si provi a chiedere all’ex genero di Nazarbayev, Aliev). Ovviamente, lo spirito realista di chi scrive porta a ritenere opportuno dal punto di vista delle relazioni internazionali assecondare un paese partner di rilevo, come il Kazakistan, non intendo entrare della sua “giustezza”. Quello che proprio non andava fatto, tuttavia, è stato compiuto, con l’urlo gridato dai vertici italiani “non sapevo, non volevo, non dovevo” per salvare la poltrona. Se al fatto uniamo la raffazzonatura nel caso, tutto interno, degli F35, e nell’affare Marò ( rifiuto di mandare in India per colloqui investigativi gli altri quattro militari), la sensazione è desolante.
Lo è ancor di più alla luce dell’arroccamento nazionale su questioni interne, subordinando la politica estera a quella locale ( caso Berlusconi su tutti), che distrae il Paese e la classe politica da priorità essenziali, facendoci apparire sempre più come la versione moderna dell’omerica (forse) Batracomiomachia, con i vari Gonfiagote, Rubabriciole e Rodipane.

In caso di auspicabile stabilizzazione e progresso economico del Paese, il governo in carica o, presumibilmente quello che seguirà, dovrà sforzarsi non solo di lenire i danni d’immagine e credibilità all’estero, ma anche di razionalizzare virtuosamente le nostre strutture cardine ( con riforme migliori di quelle, tremende, attuali), per riprendere quel ruolo di media potenza che compete all’Italia e per imparare, finalmente, dai propri errori.

L’Italia ha infatti la memoria corta: ad esempio, distorsioni nei quadri governativi e una malsana cultura qualunquista fecero danni già più di settant’anni fa: nel 1939, l’allora Ambasciatore a Mosca Augusto Rosso venne informato dal suo corrispettivo tedesco della faccenda del patto “Molotov- Ribbentropp; prontamente egli fece rapporto a Roma, ma il suo preziosissimo documento fu archiviato al gabinetto degli Esteri come normale amministrazione. Ovviamente il patto coglierà di sorpresa il governo italiano.

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