La notizia rilasciata dal Ministero della Difesa cinese, il 24 Novembre scorso, circa la realizzazione di una “Zona di Identificazione di Difesa Aerea (in inglese Air Defense Identification Zone, ADIZ) nel tratto di Mar Cinese Orientale compreso tra Corea del Sud, Giappone e Taiwan, ha destato forti preoccupazioni sia negli attori regionali dell’area Asia-Pacifico sia negli Stati Uniti di Barack Obama, alla continua ricerca della concretizzazione pratica di quel Pivot to Asia così teoricamente ben delineato nell’Ottobre 2011 in “America’s Pacific Century” per Foreign Policy dall’allora Segretario di Stato Hillary Clinton.
L’ambizione del Pivot to Asia (é conosciuta anche sotto l’altra definizione di Rebalancing to Asia) sarebbe dovuta essere, nel disegno di medio periodo dell’Amministrazione Obama, una postura geo-economica e strategica mediante la quale implementare azioni di rinnovata presenza socio-economico-militare degli Stati Uniti nell’area dell’Asia-Pacifico, a diretto contatto, pertanto, con l’ascesa geopolitica cinese. É bene evidenziare come, a livello puramente concettuale, il Pivot non sia stato preparato squisitamente in funzione anti-cinese ma ne abbia assunto il carattere per necessario realismo internazionale. Il contenimento dell’influenza di Pechino, resosi necessario, secondo il Pentagono, per rendere l’ascesa cinese la meno minacciosa, ostile e rigida possibile nei confronti degli interessi americani nell’area dell’Estremo Oriente, così come delle priorità di sicurezza degli alleati degli USA, avviene sul principale terreno del confronto marittimo, senza escludere gli importantissimi sviluppi in termini di spazi aerei (come nel caso della ADIZ) e di aeree extra-atmosferiche.
Da parte americana coesiste il difficile sentimento di una potenza e di una superiorità tecnologica ancora manifesta nei confronti dei cinesi con la crescente paura che la Cina, una volta raggiunto il rango di super potenza navale, sia in futuro in grado di competere con la marina americana per il controllo delle vie marittime, rese ancor più vitali nella grande regione degli Oceani Indiano-Pacifico dallo spostamento dei volumi prioritari di traffici energetici lungo le Sea Lines of Communications (SLOCs), dal Golfo Persico per tutto l’Oceano Indiano, fino allo Stretto di Malacca e infine nei Mari Cinesi ( Meridionale e Occidentale).
Di rimando, sentendo la rinnovata presenza americana nel Pacifico, almeno sulla carta, come ostativa alla propria libera ascesa, l’azione di risposta programmata da Pechino si é sviluppata in una politica onnicomprensiva mirante a creare un ampio cordone di sicurezza marittima per i propri confini, vale a dire un piano di salvaguardia che comprenda un sempre maggior controllo dei mari limitrofi, oltre che dello spazio extra-atmosferico, valutando come massimamente prioritarie sia la sovranità nazionale sia l’integrità territoriale e degli interessi strategici. Nella tranquilla dimensione estera della proiezione di potenza di Pechino, almeno secondo gli standard cinesi, si tenga a mente comunque che la Cina non compie operazioni militari all’estero, se non quelle riconducibili nel quadro di missioni internazionali di peacekeeping. Il piano di contenimento della pressione americana, a cui si deve aggiungere anche la spinta giapponese, sudcoreana e, in minima parte, di Taiwan, oltre che vietnamita e filippina, si sviluppa soprattutto attraverso una gunboat Diplomacy esercitata in particolare a livello paramilitare tramite guardia costiera e agenzie affini, senza dimenticare la “stringa di perle isolane” speculare a quella di Washington e in antitesi sia a quella americana sia alla nuova string of pearls indiana.
La componente aerea e spaziale occupa una posizione di primaria importanza nella strategia di sorveglianza cinese (surveillance/awareness), imperniata dal 2009 su un nuovo concetto di sicurezza basato non più sulla difesa delle frontiere naturali ma sulla creazione di confini di controllo nazionale, un piano che ben si sposa con le tre priorità di Pechino riprese nelle conclusioni del III Plenum del diciottesimo Congresso del Partito, conclusosi il 12 Novembre scorso. La sopravvivenza del regime, l’integrità territoriale e la stabilità interna sono gli assi portanti della strategia di sicurezza, vista in approccio asimmetrico, con difesa aerea, dissuasione balistica e cyberwar come punte di diamante della strategia di rottura del fronte di contenimento americano.
Una pianificazione accurata rinforzata dall’estensione dell’interesse strategico cinese oltre che alle tre aree periferiche cuscinetto di Taiwan, Tibet e Xinjang, anche ai territori contestati nel Mar Cinese Meridionale e Orientale, un chiaro segnale dell’importanza attribuita da parte dell’establishment al governo a Pechino per il “Fronte acqueo”, in particolare l’area delimitata dalle ormai famose nine dashes.
In tale ragionamento vi é una solida coerenza di fondo: il Mar Cinese Orientale, il Meridionale e l’Oceano Indiano tutto sono divenuti negli ultimi anni il teatro d’azione privilegiato dell’ascesa geopolitica cinese, per quanto concerne le rotte marittime commerciali e di comunicazione, in competizione con gli altri attori regionali e soprattutto con l’India, l’altra grande potenza asiatica in crescita. Il settore “cielo-spazio” diviene pertanto asse fondamentale della sea awareness. Valutando il fatto che la Cina, al momento, dispone di una sola portaerei, la Lioning, e che Nuova Delhi ha ora completato l’acquisto di una seconda portaerei dai russi ( la INS Vikramaditya, ex Ammiraglio Gorshkov), prima di terminarne una di produzione nazionale, la INS Vikrant, nel 2017, per non parlare della disponibilità americana, la componente della sorveglianza radar aerea unità alla strategia anti-access/area-denial (A2/AD), risulta l’elemento più concreto a disposizione di Pechino per il momento.
A rinforzare la convinzione cinese in questi termini giunge la notizia del recente lancio nello spazio della nuova sonda luna “Chang’e-3”, munita per la prima volta di Rover per l’allunaggio. L’ascesa spaziale di Pechino preoccupa non poco Washington: se é vero che il divario tecnologico esiste ancora e persisterà a lungo, é pur certo che esso si stia assottigliando, complice anche l’intensa campagna di ammodernamento tecnologico compiuta dal governo cinese così come dalle sue forze armate ( People Liberation Army), e una vivace azione di spionaggio industriale a livello cyber per ridurre il gap infrastrutturale, soprattutto a livello spaziale. L’attenzione strategica cinese riservata allo spazio e al cielo non é casuale e risponde alla necessità di trovare una necessaria contromisura per la supposta strategia di lungo periodo americana basata sulla cosiddetta Air/sea battle, un approccio integrato tra marina e aeronautica per rispondere a minacce asimmetriche prettamente in aree costiere ( ideato dall’Ufficio per la Valutazione Netta all’interno del Pentagono a partire dal 2009 per affrontare situazioni critiche, soprattutto riguardo Iran e Cina).
L’integrazione tattica di mare e cielo nell’approccio contro minacce asimmetriche, riporta in evidenza l’importanza della mossa di Pechino della Zona di Identificazione di Difesa Aerea ( ADIZ). É verosimile la supposizione che l’idea della ADIZ sia uno dei prodotti concettuali risultato del III Plenum conclusosi in novembre; una possibile soluzione sul nucleare iraniano iniziata con l’accordo ad interim di Novembre é intesa con lieve preoccupazione a Pechino perché, anche se una stabilizzazione del Greater Middle East é ancora ben lungi dal realizzarsi, é fuori di dubbio che uno scenario più stabile in Medio Oriente favorirebbe una politica americana del Pivot to Asia più decisa, con un innalzamento del livello del confronto con la Cina.
Sicuramente la ADIZ può essere considerata una strategia di impatto, non esente da controindicazioni, acuite dalle ultime azioni del governo di Pechino non proprio legate da coerenza stringente, nell’esercizio di un soft power che mira a presentare un’immagine della Cina diversa da quella del gigante ingordo. Lo scarso impegno economico e umanitario espresso dai cinesi nei postumi dell’uragano Haiyan abbattutosi sulle Filippine sembra ulteriormente risaltare questa schizofrenia estera della Cina.
La ADIZ, pur essendo perfettamente legittima dal punto di vista delle norme di diritto internazionale, considerando la totale libertà di ogni Paese nel stabilire una zona simile nello spazio aereo internazionale adiacente a quello nazionale, cosa che per esempio il Giappone fece già a partire dal 1968, può trasformarsi in un’arma a doppio taglio per la politica marittima di Pechino, per una buona serie di motivi. In primo luogo la ADIZ cinese si sovrappone alle zone simili di Giappone, Corea del Sud e Taiwan; il fatto che vengano coinvolte le isole Senkaku/Diaoyu e le isole Iedo, é riuscito in brevissimo tempo ad alienare la minima intesa ritrovata negli ultimi mesi tra la Cina e rispettivamente Giappone e Corea del Sud, una bella prova di assoluta mancanza di progettazione e di soft power che esuli un minimo dall’influenza meramente economica. La seconda questione rilevante é la mancanza di enforcement dato al rispetto della propria zona di identificazione; nonostante le ripetute violazioni della nuova ADIZ da parte americana, a partire dal 25 Novembre, coreana e giapponese dal 28 del medesimo mese, le autorità cinesi non hanno adottato nessuna delle misure preannunciate in caso di mancato rispetto; non solo, si é profilato una sorta di dissidio interno ai quadri del Partito, ma soprattutto tra Partito ed élite delle Forze Militari, che da anni dibattono sull’opportunità o meno di abbandonare l’atteggiamento prudente suggerito da Deng Xiaoping sul finire degli anni Settanta. Infine, fatto ancor più importante, nonostante il malumore coreano e giapponese circa i tentennamenti americani sulla politica da seguire nei confronti della ADIZ cinese, la Cina sembra inanellare errori su errori, come la vicenda del 5 dicembre scorso che ha coinvolto la nave americana USS Cowpens e il naviglio di scorta della portaerei cinese Liaoning ( l’unica al momento in possesso di Pechino): la nave americana ha dovuto eseguire una manovra d’emergenza cambiando rotta dopo aver ricevuto l’alt da una nave scorta cinese, che le voleva impedire di entrare nel perimetro di sicurezza intorno alla Liaoning, un’area valutata dal Pentagono intorno a ben 60 miglia marittime.
Un’azione di soft power, come quella della proclamazione della ADIZ, deve avere sufficienti margini di manovra e soprattutto risultare altamente credibile, inserendosi in un contesto non totalmente ostile (essenziale per non inasprire subito le relazioni) in cui la manovra possa essere percepita come concreta ed efficace. La Zona cinese, che prevede l’obbligo di identificazione da parte di ogni veivolo, con il Paese di appartenenza e l’annuncio del piano di volo al Ministero degli Esteri cinese, rivela l’importanza attribuita da Pechino ai radar, visto che la procedura prevista di mantenere aperti i due canali di comunicazione radio e attivo il radar transponder secondario se in possesso del veivolo permette al radar di terra una pronta individuazione dell’areo in oggetto. Tuttavia la mossa di Pechino non sembra essere stata programmata con il dovuto tempismo e la necessaria preparazione storica, vista la non considerazione del fatto che gli Stati Uniti, pur in possesso di una ADIZ come quella cinese, non applicano le procedure in oggetto quando veivoli stranieri non sembrano indirizzati verso lo spazio aereo nazionale americano, proprio la questione sollevata nelle ultime ore da Kerry.
Le tanto minacciate azioni difensive e di emergenza da parte delle forze armate cinesi se le linee guida della ADIZ non venissero rispettate, non sembrano concrete. E’ possibile che la ADIZ, anziché rafforzare la posizione cinese, finisca per divenire, dopo tanti successi in campo economico e politico, il primo “buco nell’acqua”. A rendere però verosimilmente efficace o meno l’azione cinese dell’ADIZ contribuisce in prima battuta soprattutto la reazione di Washington, più ancora di quella di Giappone, Corea del Sud, Vietnam, Taiwan, Filippine. Come era prevedibile, il viaggio di Biden in Asia non ha contribuito di certo a rasserenare gli animi degli amici degli Stati Uniti, visto l’andamento ondivago delle dichiarazioni del Vicepresidente nei confronti dell’iniziativa cinese. C’erano tutti i margini di manovra per rendere chiaro in ambito internazionale la portata sicuramente eccessiva della mossa strategica cinese, quanto meno dal punto di vista delle forma e delle contingenze temporali: eppure l’esigenza di Washington di non inasprire in maniera irreparabile le relazioni con Pechino ha fatto sì che le mosse americane oscillassero troppo tra l’assicurazione data al Paese del Drago e quella data ai propri partner di sicurezza. Da un lato l’esigenza, sul piano delle relazioni globali con Pechino, di non esacerbare le tensioni che già si sono accumulate dal punto di vista economico, dall’altro le necessità regionali americani di preservare un fronte unito che possa contenere in qualche misura l’avanzata cinese, anche se la compattezza del fronte “anti Cina” sembra un’utopia, vista la varietà di azioni intraprese da Tokyo, Taipei e Seoul, solo per citarne alcune.
Se da un lato il Giappone intende presentare, insieme all’ASEAN, ( Association of Southeastern Asian Nations) una dichiarazione comune sulle zone di identificazione di difesa aerea, in particolare ovviamente su quella cinese, dall’altro la Corea del Sud, vinti i suoi ultimi dubbi, ha diramato, tramite il proprio Ministero della Difesa, la notizia che provvederà anzitempo alla modifica in senso espansivo della propria zona, la KADIZ (Korean Air-Defense Identification Zone), mentre Taiwan, l’attore geopolitico che più di ogni altro rischia in caso di rottura degli equilibri, avrebbe chiesto alle parti in causa di risolvere pacificamente la querelle sulle istanze contrapposte in tema di ADIZ. Tuttavia occorre sottolineare ancora una volta come la Cina ci metta del suo nell’inimicarsi gli attori regionali in azioni per le quali non dispone neanche di una seria capacità di enforcement: è il caso dei nuovi regolamenti in ambito della pesca, frutto di un passato impulso del governo provinciale di Hainan ( uno degli elementi cardine nella string of pearls), entrati in vigore dal 1 gennaio di questo, che teoricamente prevedono maggiori controlli su naviglio di qualsivoglia nazione nelle acque contese del Mar Cinese Meridionale. Tuttavia la Cina non dispone dei mezzi di pattugliamento necessari per rendere credibile la manovra di rivendicazione.
Per evitare la disgregazione delle potenze regionali, di cui si è accennato, gli USA dovrebbero approfittare degli scivoloni nei toni e nelle mancanze evidenti nel soft power cinese, senza di rimando prestare il fianco, con i propri sbandamenti, a manifestazioni che evidenzino l’impotenza in fieri del Paese americano nello scacchiere asiatico. Il sistema per il quale gli USA sono in prima linea e gli altri seguono a ruota non è più possibile e nemmeno auspicabile: una posizione meno di hub and spoke e più di back power nei confronti delle Organizzazioni internazionali regionali che possano opporre un framework multilaterale alle preferenze bilaterali di Pechino è la mossa più auspicabile e in questo senso vanno considerate le mosse di Tokyo nel rinverdire gli accordi swap valutario con l’ASEAN e le riprese di azioni di partnership tra gli USA e l’ASEAN stesso.