Si è svolta ieri sera alla Fondazione Stelline a Milano, nel quadro di BookCity,la presentazione del libro di Silvia Paterlini “Goddbye Province” (Guerini e associati, 2014) con discussione sulla...
Si è svolta ieri sera alla Fondazione Stelline a Milano, nel quadro di BookCity,la presentazione del libro di Silvia Paterlini “Goddbye Province” (Guerini e associati, 2014) con discussione sulla prospettiva delle città metropolitane a cui hanno partecipato, moderati da Alberto Giannoni (Il Giornale), Piercarla Del Piano, Dario Rigamonti, Massimo Rebotti, Bruno Dapei e Stefano Rolando (professore alla Università Iulm e presidente del Comitato Brand Milano) del quale qui è pubblicato l’intervento.
Per prima cosa vorrei fare un elogio al libro di Silvia Paterlini dalla cui lettura si ricava un approccio di metodo proprio di una laureata in filosofia. Il trattamento delle antinomie e quindi l’argomentazione, per altro pacata e garbata, antidemagogica che permea tutta la scrittura.
Qualcuno potrebbe dire che è un libro pubblicato “a buoi scappati”.Nel senso che molte delle argomentazioni qui raccolte sono mancate nel – per altro insufficiente – dibattito attorno alla legge 56, quella che appunto ha abolito le Province. Ma è invece evidente che questo testo su “mito e retorica dell’abolizione in cento luoghi comuni” è ora al servizio di tre importanti dibattiti aperti:
– la problematica della riorganizzazione istituzionale del territorio;
– una necessaria razionalizzazione della discussione sui costi della politica;
– un contributo alle legittimazione del contenuto “identitario” (quello per cui le istituzioni hanno ragioni storico-sociali rispetto a cui sono chiamate a “dar voce”) attorno a cui, con richiami di forte attualità, si parla oggi di periferie, di processi di metropolizzazione, di coesione.
Credo che il provvedimento, annunciato dal tempo del governo Monti e approvato nell’aprile di quest’anno nel quadro del governo Renzi (tanto che la legge 56 prende il nome di “legge Del Rio”) , che da origine al libro di cui parliamo, faccia parte di quella materia che già Machiavelli trattava e che tuttora consente di cogliere a volte – sto per dire quasi un ossimoro – la inevitabilità della demagogia. Voglio dire il prezzo pagato,in stagione di crisi economica e di grave crisi di reputazione della politica, con alcuni provvedimenti tesi a mostrare reazione alla degenerazione della politica italiana soprattutto intesa come inefficienza di una vera cultura di governo (soprattutto nella “seconda Repubblica”) e come impopolarità dei privilegi appunto in fase di crisi.
I provvedimenti sul Senato, sul Cnel e sulle Province hanno infatti le loro “ragioni” e hanno tutti e tre le loro “discutibilità”. Rischiano tuttavia di diminuire lo spazio della democrazia, non generano (nel caso del Senato) una vera Camera delle autonomie, eliminano un ambito di relazione tra istituzioni e mondo dell’impresa e del lavoro che poteva essere meglio riformato e – nel caso delle province – lasciano aperte molte questioni attorno a competenze difficilmente delegabili, apparendo tutti e tre con un carattere prevalente di “rito antibiotico”, cioè come deflogizzatori di infiammazione dell’opinione pubblica.
Valerio Onida e Giuseppe De Rita nelle interviste che chiudono il libro di Silvia Paterlini usano l’espressione “area vasta” per indicare i territori provinciali. E’ una bella espressione, anche con un filo di necessaria vaghezza, per indicare ora l’indistinto attorno a cui vanno trovate risposte amministrative e di governo ma anche di compiutezza di un ordine istituzionale che ora appare irrisolto. Certo vi è l’indicazione delle città metropolitane, che riguarda tuttavia solo alcuni casi (e non siamo neppure certi che tutti quei casi arriveranno a destinazione). Poi ne parliamo.
Per affrontare gli irrisolti si sente parlare di trasferimenti di funzioni ma arrivano le complicazioni. Si sente anche parlare di agenzie in capo alle Regioni e si capisce che non c’è aria per costruire soggetti destinati a essere vissuti come”carrozzoni” e non come snodi di efficienza. Il presidente dell’Anci, Piero Fassino, rilancia la geometria dei consorzi intercomunali (soprattutto per la piccola frammentazione del territorio) che per alcune funzioni ha possibilità per altre no. Torna ad affacciarsi l’ipotesi della privatizzazione ovvero del rilancio della sussidiarietà ma che comporta chiarezza sulle risorse finanziarie in una stagione in cui la leva dei tagli è ancora micidiale.
Certo è aperto il dibattito sulle città metropolitane e quello che si avverte è che se non ce la dovesse fare Milano difficilmente ce la potrebbero fare le altre città investite. Dunque il cantiere che si è aperto attorno alla “vasta area” che ci circonda è di primaria importanza per la soluzione di questi dibattiti.
Io credo che nel 2015 questo “cantiere” sia, per certi versi, anche più importante di quello di Expo, pur avendo i due temi una certa complementarità.
Penso che – chiarito con lo statuto quale sarà il profilo democratico della C.M (dove la mia preferenza va nettamente verso la soluzione della democrazia diretta per eleggere e quindi legittimare la governance) e chiarita la sagomatura amministrativa del territorio compreso (dove la mia preferenza va al superamento dei vecchi confini comunali entro una nuova riarticolazione del territorio) – il vero snodo progettuale sarà costituito dal piano strategico. Che non è una opzione, ma un obbligo. E che non deve essere un compendio di azioni giuridico-amministrative o un testo tecnico limitato al piano infrastrutturale. Deve essere la traduzione progettuale di una visione che affronta in primis il tema del nuovo spazio identitario che si configura partendo da un nuovo patto tra un vecchio borgo che invecchia e che perde popolazione e un vasto territorio che non ha più le caratteristiche “eroiche” dell’età industriale ma che è cresciuto tanto nelle ibridazioni quanto anche nelle potenzialità.
Un sistema che deve individuare la sua nuova mappa di cambiamenti con al centro il diffuso ricostituirsi di centri di innovazione (penso a Sesto Giovanni e al passaggio dall’acciaio alla città della salute) così da configurare un insieme di nuove storie da raccontare per confezionare il grande biglietto da visita al mondo di una parola, “Milano” , che entra nel club delle aree metropolitane del mondo con molte funzioni e soprattutto con molte connessioni con il mondo stesso.
Già Milano è città con punti di forza globali importanti, ma non ha le”dimensioni” competitive che hanno altre città alla ribalta. Da qui una vera rifondazione identitaria che generi anche il quadro delle ragioni per trovare la prospettiva finanziaria che oggi – stando ai bilanci della provincia defunta – non è nemmeno immaginabile.
Quella “visione identitaria”, infatti, si colloca in una ampia strategia di attrattività che – grazie alle reti e alle opportunità che il nuovo territorio metropolitano esprimerebbe (dai trasporti alle università, dai centri di ricerca alla rete sanitaria, dai luoghi connessi ai patrimoni culturali a quelli ad alta qualità ambientale ) – non vuol dire solo turisti, ma anche investimenti, buone idee, docenti e studenti, lavoratori qualificati, eccetera. Insomma un progetto di nuova brandizzazione di Milano in cui l’auspicata buona riuscita di Expo è una delle leve di crescita con sguardo al mondo e agli interessi per tutta l’Italia di una difficile ma non impossibile riuscita.