Oggi è il 9 maggio e – politicamente parlando – è la festa dell’Europa.
Il Presidente del Parlamento europeo Martin Schultz, per esempio, è questa mattina all’Expo a Milano – che così issa sui penn...
Oggi è il 9 maggio e – politicamente parlando – è la festa dell’Europa.
Il Presidente del Parlamento europeo Martin Schultz, per esempio, è questa mattina all’Expo a Milano – che così issa sui pennoni, dopo una settimana dall’inaugurazione, anche la bandiera blu con le 12 stelle d’oro finora rimasta in ombra – e in ogni paese membro governi e istituzioni UE danno vita ad una agenda sociale e istituzionale per cercare di coinvolgere i cittadini sulla vitalità di una storia e sul perdurare del consenso attorno a quella storia, con segnali come è noto contraddittori. Si spargerà al vento un po’ di retorica, senza dubbio. Ma allo stesso tempo molti europeisti preoccupati cercheranno di fare emergere punti nevralgici della crisi identitaria sollecitando sentimenti in buona parte sopiti.
Do conto qui, brevemente, di una esperienza tra le tante connesse a questo appuntamento.
Il governo romeno e la Commissione UE hanno anticipato la festa all’8 maggio a Bucarest e ho avuto l’onore di essere invitato ieri, insieme al ministro degli Esteri della Romania Bogdan Aurescu, all’evento centrale dell’agenda nel magnifico auditorium della Biblioteca universitaria Carol I in pieno centro di Bucarest.
I romeni sentono attorno, nell’area centro-europea, venti freddi se non gelidi nei confronti dell’Europa (soprattutto Ungheria, Cechia, ma in generale una parte consistente dell’ex-impero dell’est che è stato oggetto dell’ampliamento del perimetro dell’Unione con accelerazioni dal 2004 al 2007 che hanno riguardano i destini di dodici paesi) e vogliono mantenere, in sintonia con la loro ancora prevalente opinione pubblica, un carattere invece più euro-ottimista. Comprendono che il processo comunicativo attorno all’idea di Europa è ai minimi storici e proprio su questo aspetto centrano il contenuto della celebrazione invitando, nel mio caso, un sollecitatore che continua a occuparsi con costanza proprio del tema, tra l’altro presiedendo il coordinamento dei comunicatori istituzionali dei governi e delle istituzioni UE che ha, dal 1986, il nome “informale” di Club of Venice. Non è casuale che in materia di Europa la Romania ricordi sempre la sua radice latina e segnali ancora il rapporto privilegiato con l’Italia nel quadro dei paesi fondatori.
Come si sa la data del 9 maggio fu scelta nel vertice di Milano della UE del 1985 come ricorrenza identitaria; a memoria della dichiarazione del 9 maggio del 1950 con cui Robert Schuman poneva fine al principio della autosufficienza assoluta degli Stati fissata dalla Pace di Westfalia tre secoli prima – grazie a cui si sono sepolti, in continue guerre, milioni di persone – fissando con l’intuizione della CECA il principio di ineludibilità della cooperazione tra i paesi d’Europa. E così ristabilendo in modo duraturo la pace.
Proprio questo spunto ha permesso di svolgere una riflessione su quella scelta e su quella data cercando di fare un po’ di luce sulle preoccupazioni del presente. E questo approccio ha trovato una certa adesione nei partecipanti.
Si dice spesso – qualcuno lo attribuisce a Jean Monnet altri a Jacques Delors, magari lo ha scritto in un diario un professore tedesco di latino oppure lo ha detto un teatrante italiano o ancora un poeta civile greco, chissà – che dovevamo partire dalla cultura per fare l’Europa non dagli interessi economici (come sono stati infatti rubricati gli atti costitutivi della CECA, cioè la comunità del carbone e dell’acciaio).
E infatti qualcun’altro ha risposto: ma no, meglio così, perché se partivamo dalla cultura, trascinavamo la frammentazione linguistica e soprattutto la diversità delle radici e tornavamo a scannarci; meglio stare insieme per i quattrini, è più sicuro. In realtà – questo mi è venuto da dire oggi in quell’occasione – con quella data (9 maggio 1950) siamo proprio partiti dalla cultura, non dai quattrini!
Perché abbiamo ribaltato un profondo dato identitario e lo abbiamo fatto perché la seconda guerra mondiale aveva forzato ogni limite proprio della competizione identitaria, obbligandoci a un ribaltamento del paradigma culturale. Farlo o perire. Tuttavia l’equivoco su questa origine sessantacinque anni dopo ci consegna una Europa spaccata in due: chi concepisce quella identità ora come identità politica (il 50% di cittadini e governanti secondo Eurobarometro) e chi come soltanto un mercato (l’altro 50 %). La radicalizzazione è forte e neutralizza ogni politica di comunicazione perché non c’è una identità univoca da raccontare.
Chissà che reagendo a evidenti pericoli esterni, a nuovi ultra-scetticismi interni e alla sostanziale impossibilità di attribuire all’Europa il carattere ufficiale di “global player” (che il successo conservatore inglese rafforza), non si affacci una nuova generazione di rifondatori, diciamo di “giovani padri della patria” capaci di riconnettere quelle due metà della nostra mela, trovando (nella nuova identità digitale, nella comunione educativa, nella spudorata difesa delle pelle della gente o chissà in che cosa) il “carbone e l’acciaio” del terzo millennio, per rendere ineludibile la connessione tra mercato e identità politica.
Fatto ciò ritornerebbe la politica e ritornerebbe la comunicazione. Al di sotto di questa soglia, rappresentata dal miracolo, la spunteranno i parassiti del rancore e i fabbricanti di elettorati pretestuosi. Ovvero la crescente schiera dei DSM: Dilettanti Senza Memoria.
Proviamo ad evitare che la Festa dell’Europa, insomma, si riduca alla ratifica di un tran tran.
E su questo spunto si aprono le verifiche che ciascun paese può fare sulla propria classe dirigente e sulla qualità del proprio dibattito pubblico al riguardo. Certo con critiche e scuotimenti di capo, ma anche con la segnalazione di rinnovamenti che non vanno messi nel calderone del mugugno.