Buona e mala politica“Milano 2015”, una narrazione non esaustiva ma non pubblicitaria

Sono rientrato a casa poco fa dal Teatro Dal Verme, piuttosto gremito per l'anteprima di "Milano 2015", progetto di Cristiana Mainardi, prodotto da Lionello Cerri (Anteo e tante altre cose attorno ...

Sono rientrato a casa poco fa dal Teatro Dal Verme, piuttosto gremito per l’anteprima di “Milano 2015“, progetto di Cristiana Mainardi, prodotto da Lionello Cerri (Anteo e tante altre cose attorno al cinema di qualità), firmato da sei registi, due dei quali professionisti della “specifico”, Silvio Soldini e Giorgio Diritti; uno ormai sperimentato con il mestiere, Walter Veltroni; e tre artisti dello spettacolo: Roberto Bolle (ballerino), Cristiana Capotondi (attrice), Elio (musicista).

Nelle presentazioni sul palco l’accento è andato sulla “città bellissima e sorprendente“. Ma il sindaco Giuliano Pisapia si è sentito in dovere, con garbo, di prendere le distanze dall’interpretazione provocatoria di Elio, che ha fatto elencare (da un giovane cinese in bicicletta che, facendo l’imprenditore, medita di porre riparo in futuro allo scempio) la quantità di teatri e teatrini storici di Milano che sono stati chiusi. E lo stesso sindaco ha, anzi, trovato la chiave del film nella lettura classica di una città che non butta la tradizione ma la innova e la rinnova. Gianni Canova, introducendo, ha detto che – sulla scia di Expo – questa è la prima “narrazione” corale sui grandi cambiamenti della città. E che essendo “libera e non a tesi precostituite” merita un applauso, perchè essa è comunque un’operazione di verità.

A proposito delle “tesi precostituite” – lo si è letto dopo la prima presentazione del film al recente Festival di Venezia – l’ispirazione metodologica  della realizzazione viene dalla “Milano 1983” di Ermanno Olmi, realizzata sui registri tematici olmiani (tradizione, umanità, dolenza) negli anni della “Milano da bere“. Quindi in controtendenza rispetto alla eventuale domanda politica di un film celebrativo. Qui senza neppure impedire ai diversi sguardi sulla città di fare magari anche qualche applauso, qualche sottolinatura tifosa, qualche rapimento da sentimenti.

Vero è che il film non è un film-cartolina, non è un film su una cartolina, non è un prodotto dei pubblicitari, non è un film esaustivo sulle virtù ambrosiane, non è un encomio. Ma – sia chiaro – non è neppure una filippica, un ammonimento, una polemica, un’altra “cartolina” grigia e livida a cui per anni il cinema ha attinto per girare a Milano film su Lutring, sulla malavita, sull’alienazione, sulle tendenze suicidarie. Se c’è una cosa chiara è che questo è un film “a colori”.

L’immaginario collettivo dei sei autori (in parte milanesi, in parte no ma con connessioni) in realtà assomiglia al sentimento identitario collettivo dei milanesi (che sono in parte nativi e in parte adottivi): votano “mi piace” e difendono la città, ma proprio per questo si sentono liberi di criticare, di scegliere un dettaglio per dire la loro, di non fare necessariamente sintesi, di accostare un muro scrostato a un grattacielo perfetto. E ancor più, dentro di sè, vogliono sentirsi liberi di definire “bellissime” cose che piacciono più che altro a loro (dalla Centrale al Monumentale, dalla Torre Velasca a piazza Cadorna). Dunque “Milano 2015” è in una certa sintonia con il sentimento profondo della città  che sente la complessità, persino la durezza, comunque anche la sofferenza per il cambiamento che fa del glorioso Vigorelli un rudere o dei vecchi teatri dei ristoranti. E persino con il cambiamento simbolico che in fondo fa loro preferire – se di simboli si deve parlare – i tram sferraglianti al Castello Sforzesco. Infatti i tram si vedono sempre e il Castello non lo si vede mai.

A me è piaciuto il “Cieli” finale di Giorgio Diritti perchè in un’ora e mezza ho bisogno che qualcuno suoni una buona musica e mi proponga anche frammenti della città elegante  (poi, per converso, proprio lì ho sentito che manca il rap e che le periferie stanno certamente meglio ma restano un problema). Mi è piaciuto il Vigorelli di Veltroni perchè c’è un copione e perchè alla mia generazione bastano Coppi e Maspes per un piccolo deliquio. Mi è piaciuto il “Solferino 28” della Capotondi perchè nell’universo simbolico di Milano il Corriere “valoriale” va difeso. Ma, onestamente, la Milano del cambiamento stava piuttosto negli altri filmati, magari a me meno empatici ma più moderni e con linguaggi che traducono globalità, mobilità, sostenibilità e varie altre parole che sono i codici del mutamento in atto (un po’ meno, va detto, l’atto d’amore di Bolle per la sua Scala che – sulle punte delle ballerine e insieme sotto i martelli dei falegnami – si è già vista almeno da Paolo Grassi in poi).

Per chi si occupa della narrazione della nuova Milano, “Milano 2015” è un buono stimolo che va accolto con gratitudine ma, con sincerità, non porta via il mestiere a nessuno e lascia spazio anche ad altre letture.  

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