Milano, 1 gennaio 2016
Dedico la prima breve scrittura del primo dell’anno al mio specifico disciplinare. La comunicazione.
Non perché mi sia sognato un nuovo teorema che aprirà chissà quali confini. Ma perché mi sento a fronte di un anno in cui il mio connesso ambito di attenzioni scientifiche e civili, la politica, potrebbe venir messo a dura prova. Nel senso di vedere insorgere continuamente il fantasma del Novecento, quello che ho cercato di descrivere recentemente[1] parlando della declinazione partecipativa della comunicazione che non riesce mai a mettere davvero all’angolo la tentazione ricorrente, ovviamente nei regimi autoritari ma anche e continuamente in quelli che chiamiamo “regimi democratici”, della declinazione propagandistica.
Dedico questa riflessione alle giornate finali di immatricolazione del master che da quindici anni dirigo presso l’Università Iulm a Milano[2] per spiegare brevemente a chi sta pensando di fare questo percorso qual è il punto di apprendimento principale che potrebbe conseguire.
Vorrei quindi partire dalla domanda di comunicazione, che è quella che si genera dall’uso invalso dei mezzi e degli strumenti, materiali e immateriali, per organizzare la vita, il lavoro, gli interessi, le relazioni. E dunque anche il rapporto con i poteri. Uno studioso critico della comunicazione (Mario Perniola, docente di Estetica a Roma) ha scritto che essa ci fa ormai confondere e quindi non più separare “la differenza tra reale e impossibile”[3].
Mi pare infatti che tra mondo economico e dei consumi e mondo politico e dei consensi la domanda di gran lunga prevalente sia quella connessa all’uso miracolistico della comunicazione, cioè legata a tutto ciò che non possediamo ovvero che ancora non possediamo ma che vogliamo (vendite, voti, ricchezza, successo, apparenza, reputazione) che – relativamente con poca spesa, poco lavoro, poca riorganizzazione della propria etica dei comportamenti – pensiamo di poter acquisire presto e soprattutto “contro” i nostri competitor. La domanda è qui di una tecnica strumentale che – giocando con le parole, gli artifici della sintesi, qualche effetto ipnotico, certe sapienze spettacolari – induca i destinatari appunto a ridurre quella differenza tra realtà e impossibile, offrendo risultati che la nostra proposta “reale” (parlare, produrre, vivere) non è in grado di produrre.
Milioni di ore di formazione in tutto il mondo sono dedicate alle “tecniche” per soddisfare (ovvero cercare di far credere che sia soddisfatta) quella domanda di ricucire, almeno temporaneamente, realtà e impossibilità.
Il tentativo di formare “classe dirigente” in questo campo – quindi figure in grado di navigare criticamente in contesti pacifici o tempestosi, di slancio o di crisi – obbliga tuttavia a cercare anche un’altra domanda e comunque ad avere qualche strumento per indurla.
Mi riferisco alla domanda di “interpretazione”, quella diciamo di cornice, quella che fa della comunicazione un ambito culturale idoneo non solo a confezionare altrui decisioni o altrui strategie, ma anche idoneo a portare il contributo del proprio punto di vista proprio nei processi decisionali. Come si sa più di due terzi dei comunicatori professionali (sia nel campo delle imprese che nel campo delle istituzioni e della politica) non hanno accesso nel loro lavoro ad ambiti decisionali. Un terzo sì. Che non è pochissimo, ma che rende chiaro il rapporto che oggi c’è tra domanda di miracoli e domanda di sperimentalità.
La domanda di interpretazione richiede di mettere le scienze della comunicazione nel loro naturale bacino interdisciplinare (per l’economia e per la politica non si può fare a meno delle scienze psico-sociali, della antropologia, del rapporto tra storia e memoria, oggi anche di discipline settoriali di crescente importanza, come la statistica e la demografia). E la domanda di interpretazione è connessa anche ad una libera lettura – storica e legata alle nuove insorgenze – dei fenomeni di connivenza tra potere e propaganda[4].
Qui la tecnica più usuale nell’uso miracolistico della comunicazione – la semplificazione – può diventare (con appassionanti risultati) strumento di pedagogia sociale e di abbassamento delle soglie di disabilità cognitiva.
Il che spiega l’impegno (che dilata il perimetro disciplinare ma che è prezioso in questo approccio) di un percorso formativo che cerca di tenere insieme il territorio della politica, quello delle istituzioni e quello sociale (con dentro sia l’advocacy e la cultura dei diritti di cittadinanza, sia la comunicazione di impresa nelle sue esternazioni extra-commerciali).
[1] Comunicazione, poteri e cittadini. Egea, 2014.
[2] Management della comunicazione sociale, politica e istituzionale (MASPI)
[3] Miracoli e traumi della comunicazione, Einaudi, 2009.
[4] Tra i tanti contributi a disposizione, utili quelli che va mettendo a punto Manuel Castells “dentro” le logiche del web: Comunicazione e Potere, Milano, Bocconi Università Edizioni, 2009; Reti di Indignazione e speranza. Movimenti sociali nell’era di Internet, Egea-Università Bocconi Edizioni, 2012