Attrazione per il locus e conoscenza del globus nel panorama culturale di Umberto Eco. Ma anche un rapporto attento alla Nazione.
Stefano Rolando
Le legittime e preziose paginate di molti giornali italiani per la scomparsa di Umberto Eco – a coronamento di tanto, ma anche deprivandoci di altro – sono carichi dei suoi “luoghi” in una cornice globale, che è quella della sua creatività, in cui si staglia, come ricorda Vittorio Sgarbi, il vasto sapere di un umanista occidentale.
A Milano, la città assume un contorno molto forte di memoria vivente di un illustre “milanese adottivo”, per il quale il Consiglio comunale decreterà certamente l’ingresso nel Famedio. Così anche il “suo” Piemonte originario lo ricorda (a buon diritto per il tanto Piemonte che c’è in parte dei suoi libri) e così anche Bologna ricorda la sua centralità accademica innovativa (con Il Dams e con il pionieristico “prodotto” teorico-professionale in materia di editoria che era il suo master).
Ma lo sguardo testimoniale di chi scrive vorrebbe qui – almeno per gli anni che precedono il berlusconismo, argomento non secondario di una certa refrattarietà di Eco da Roma – cogliere il senso di “essere italiano” per un italiano diventato e rimasto a lungo icona internazionale, appunto in rappresentanza dell’Italia.
A differenza degli intellettuali “icone nazionali”, che tendono a rappresentare in molti paesi una certa severità grave e fustigante (da Sartre a Borges), Umberto Eco è stato l’intellettuale ben descritto su Repubblica da Ezio Mauro: “uno studioso divertente”. Uno che – ricorda Ugo Gregoretti – entrato alla Rai da giovane grazie a un famoso concorso insieme a Gianni Vattimo e a Furio Colombo circolava attorno a Mike Bongiorno ma, in epoca di strutturalismo, prendeva in giro il rapporto con i tanti saperi intellettuali (“oggi passo un momento dal fenomenologo”, mette in bocca Gregoretti a Eco).
Ecco che però Eco si forma alla Rai in un pensiero nazionale e approda poi, in età matura, in un altro luogo di elevato pensiero nazionale come l’Accademia dei Lincei. Sente, dal Nome della Rosa in poi, una certa responsabilità di essere una “icona nazionale”, messo cioè in relazione alla simbolica del paese dall’opinione pubblica di tutta il mondo, e non rifugge dal dare un contributo a tante occasioni “romane” del rapporto tra istituzioni e cultura. Che è anche un certo modo attivo di “far politica” non solo firmando appelli e manifesti.
Di tre di queste occasioni – magari neppure le più rilevanti – do qui testimonianza per piccolo contributo complementare alle tante cose che i media hanno proposto su di lui dopo la notizia della scomparsa.
Brand Italia
Nel 1986, Francesco Cossiga succeduto a Sandro Pertini al Quirinale, accarezza l’idea di modificare l’emblema della Repubblica italiana, il popolare “Stellone”. Il governo Craxi è impegnato su molti fronti internazionali ed interni e forse non avverte la centralità della questione. E tocca così al Sottosegretario di Palazzo Chigi Giuliano Amato disciplinare questo “impulso” in una forma almeno consultiva degli italiani: intellettuali o cittadini che siano. Si costituisce una commissione che viene posta in capo a Umberto Eco (ne fanno parte anche Bruno Munari, Aligi Sassu, Emilio Greco, Armando Testa, Paolo Portoghesi) per indirizzare e poi valutare un concorso tra professionisti tra la grafica e l’araldica che produce alcune centinaia di proposte. Umberto Eco comprende il ritardo di quella che chiama “la simbolica nazionale vagante” rispetto a nuove creatività interpretative e aiuta a riscontrare, in quelle proposte, simboli vecchi: castelli, torri, stelle, regno animale e regno vegetale. Insomma niente di innovativo rispetto al simbolo “realistico” del valdese Paolo Paschetto protetto da un articolo della Costituzione. Sarà Umberto Eco a scrivere la relazione che accompagna il convincimento a non assegnare vincitori, a esporre quelle proposte solo in una mostra per riflettere sulla cultura simbolica degli italiani e soprattutto a convincere il Capo dello Stato a soprassedere.
Buchmesse
Due anni dopo il più grande evento mondiale in campo di editoria – la Buchmesse di Francoforte – decide di spettacolarizzare un po’ la sua formula e di avere ogni anno un paese ospite d’onore nel palazzo espositivo ma anche in città. Quindi dal libro all’evento. Gli organizzatori puntano alla Francia o all’Italia, considerati i due paesi più idonei a capire la formula. La Francia a sua volta punta a concentrare tutto sull’imminente ’89, bicentenario della Revolution; e tocca così all’Italia in poco tempo promuovere un modo più complesso di promozione dei suoi libri e, dietro ai libri, della sua società della cultura e dello spettacolo . Star dell’evento è Umberto Eco, tanto che è chiamata Cinecittà a ricostruire il set del recente Nome della rosa in una straordinaria cornice in cui sono ricostruiti anche in cartapesta i caffè letterari italiani e i palazzi dell’architettura dal tempo di Gutemberg alla modernità per rappresentare cinque secoli di rapporto con valore mondiale tra libro e cultura. In una squadra di settanta autori, di grandi nomi del cinema e della musica, quasi tutti presenti a Francoforte, Eco accetta la proposta del governo nazionale di giocare da capitano ed è spiritoso, battutaro, plurilingue (per la gioia dei tedeschi anche con il latino) presente a ogni evento in una città diventata tricolore nei livelli alti dell’informazione: 3500 articoli della stampa e duecento speciali televisivi di tutto il mondo.
Scienza della comunicazione
Gli anni ’90 si aprono con la spinta delle università di Torino, Siena a Salerno di vedere riconosciuti i loro corsi di laurea in Scienze della comunicazione. Il ministro Ruberti capisce che senza Milano, Roma, Napoli e Bologna si rischia di riciclare cattedre e non consentire un adeguato rapporto tra nuovi saperi e mercato del lavoro e istituisce una commissione per rendere la proposta dei nuovi corsi di laurea più interdisciplinare e più nazionale. Umberto Eco è oggettivamente la personalità di quella commissione che interpreta la mission in senso più critico e avanzato. E’ sua la proposta di istituire un biennio di specializzazione che chiama “logico-sperimentale” per impedire la super-sociologizzazione del nuovo indirizzo perché sensibile al ruolo delle nuove tecnologie e al bisogno di fare ricerca per dare prospettiva scientifica ad una disciplina che ancora non c’è. Difende l’idea che contrasta con interessi accademici e finisce in minoranza mantenendo la firma su ipotesi che poi, ove applicate, hanno salvato l’evoluzione disciplinare dalla routine diciamo descrittivista di una certa sociologia.
Altri episodi di questo ruolo di servizio alla contaminazione delle istituzioni italiane con le trasformazioni della conoscenza contemporanea potrebbero essere raccontati. E sollecito chi può a raccontarli. A dimostrazione che Umberto Eco va ricordato a tutto tondo e non solo per i libri che ha scritto.