Prima corrispondenza
Istanbul, 15 marzo 2016
L’avvicinamento alla Turchia in realtà e’ un ritorno ai banchi di scuola, soprattutto quelli del liceo classico. La geografia e’ legata ai poemi omerici, la scrittura ai manuali di storia antica, le fotografie ai patrimoni dell’umanità. La nostra civiltà viene due giri dopo. Il giro greco e il giro romano. Ittiti,selgiudichi, assiri. E poi nientepopodimeno che Alessandro Magno e la conquista dell’Asia Minore. La storia antica comincia con la guerra di Troia e finisce con i tre lunghi viaggi di Paolo di Tarso per evangelizzare questo miscuglio di razze, già al tempo confusione tra Europa ed Asia. L’ impero ottomano comincerà solo nel XIII secolo dopo Cristo e finirà con la fine degli imperi centrali, vera posta in gioco della prima guerra mondiale. Dunque, insieme allo splendore della natura e alla potenza delle tracce archeologiche (celebrate a fine ottocento dalle scoperte di Schliemann), ogni approccio deve essere conscio del distillato della storia che ogni turco reca con se’.
Questa e’ la ragione per cui tra le corrispondenza giornalistiche dei nostri quotidiani, ho cominciato a preferire quelle di Alberto Negri, sul Sole 24 ore, perché sui rapporti tra Europa e Turchia, proprio partendo dallo “sguardo storico” e pur consapevole delle nefandezze della Turchia contemporanea, parla di “ipocrisia” come cifra di un rapporto reticente, sminuente, miope, tra il nostro opportunismo e questo grande paese.
Il viaggio mi porta ben lontano da quel 3% di Europa (rispetto al 97% di Asia) che il territorio turco ridimensionato dalla prima guerra mondiale e restituito a identità moderna da Kemal Ataturk, esprime con epicentro Istanbul. Molto lontano, lungo la lunghissima costa meridionale e poi ai confini con le Siria, risalendo un poco. Ecco, esattamente sotto la storica Cappadocia e sopra quel territorio curdo che e’ storia invece di identità negate. Oggi quasi confine con la Siria in fiamme, quindi snodo dell’accoglienza di due milioni e mezzo di siriani rifugiati in Turchia di cui, appunto, la città’ di Gaziantep ne ha trattenuti 400 mila.
E in cui oggi, un’energica sindachessa, ingegnere chimico e già ministro della Famiglia nel terzo gabinetto Erdogan, Fatma Sharin, vuole parlare non più nel contesto della sola emergenza ma anche nel contesto del tempo prossimo venturo.E quindi legando al tema delle migrazioni il tema del lavoro, dell’educazione e – materia della mia convocazione – del sistema mediatico-comunicativo e relazionale.
Gaziantep, malgrado questa siderale distanza dall’Europa, viene raccontata come frontiera europea. Per le stesse ragioni per cui Alberto Negri nelle sue corrispondenze parla dell’intera Turchia come un’oggettiva grande frontiera europea. Ho in mente una mia studentessa anni fa, proveniente da Istanbul, che raccontava (una dozzina di anni fa) quanto la sua generazione avesse amato l’Europa e quanto – a furia di trattare la Turchia come una frontiera, come una dogana, come un estremo limite, e non come una “componente”- avesse finito per crederci molto meno a questa Europa. Ora, parlandone come di una frontiera, frontiera di un paese scappato un po’ di mano, il pensiero parrebbe più affettuoso, più abbracciante. Ma, come si sa, il dibattito politico e’ fatto di suggestioni soggettive. Aveva ragione lei, come forse ha oggi ragione Negri.
Parlando di emigrazione siriana (si dice che metà del popolo sia fuggito) certamente e’ qui il punto cruciale della frontiera tra Europa e Siria, anche se poi tra Turchia e UE i negoziati regolatori ( che riprendono con molte incognite il 17 marzo) articolano questa idea di frontiera in tre diverse accezioni: la grande sacca di prima accoglienza (nel quadro di storie complesse tra turchi e siriani che rendono questa “sacca” ambigua); il grande sforzo della seconda accoglienza (Grecia e Italia); il resto d’Europa che forse non ha ancora capito che lo 0,4% rispetto ai residenti dell’incidenza migratoria non è più garantibile e non è più assicurabile.
Lo schema storico della Turchia e’ anti russo, anti greco, filo americano. E’ stato micidiale per le sue minoranze (armena e curda) ma ha prodotto una delle più grandi minoranze dell’Europa comunitaria, quella che vive e lavora in Germania. Gli italiani sono buoni compagni di viaggio, simpatici, commerciali, non pregiudiziali. Le Crociate non sono più nel conto. Famagosta e Lepanto comprese. la stessa guerra italo-turca del 1911 e’ in archivio.
Anche se su queste colonne un esperto di cose turche come Fabio Grassi non crede al colpo di spugna sulla storia e dice: “Esiste un sentimento anti-turco in occidente, che ha radici profonde in Europa. Gran parte dell’identità europea si è costruita in contrapposizione al pericolo rappresentato dai turchi. Questo, in fondo, è rimasto”.
E su questa diffidenza subliminale certo pesa la stretta sui diritti civili, l’impoverimento dell’idea dello Stato laico, la recrudescenza anticurda e di recente il controllo anche senza troppi infingimenti dei media.
In questa cornice sta per prendere avvio, a Gaziantep, il colloquio italo-turco su una certa visione di integrazione delle migrazioni siriane.
Domani parleremo della prima giornata di discussioni.
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