Terza corrispondenza sul seminario italo-turco di Gaziantep in tema di migrazioni siriane.
Gaziantep, 15 marzo 2016 (sera)
Partecipando a un evento convegnistico in materia di “migrazioni emergenziali” non dominato dalla passerella dei poteri, ben inteso nemmeno estraneo a certe necessarie responsabilità istituzionali, dopo un po’ si vedono due film.
Uno e’ quello “partecipativo”, in cui associazioni, enti nazionali e internazionali, operatori tecnico-professionali, le stesse amministrazioni territoriali, esprimono le loro tensioni civili attorno alla soluzione integrativa. Come attutire l’impatto delle diversità, come fare regole condivise comprensive dei diritti dei migranti.
L’altro film e’ quello “politico”, in cui si cerca di rintracciare i piani (espliciti e più spesso inespressi) che muovono interessi di Stato verso il collasso del paese confinante.
Così le “pause caffè” assumono una certa importanza.
Nello scorrere delle relazioni, l’approccio etno-psicologico emerge come racconto e come condivisione di uno sguardo che trascende l’emergenza, a sua volta tema carico di valenze psicologiche e relazionali. Uno sguardo dei partecipanti che cerca di cogliere il bandolo di una stabilizzazione sociale dell’impatto migratorio.
Stando solo alla città che ci ospita si parla del 40% rispetto alla popolazione attualmente residente nel contesto metropolitano.
Nelle “pause caffè” le domande sorgono spontanee a chi e’ più informato per capire se e come la Turchia pensa davvero di fissare un punto definitivo in un’area destabilizzata da un incrocio micidiale di interessi contrari: rapporti tra maggioranze e minoranze etniche; rapporti tra alleanze internazionali che risalgono tanto ai soggetti regionali in contrasto tanto alle due filiere storiche del vecchio oligopolio post-bellico, russi e americani.
i due cerchi concentrici debbono avere una loro coerenza per evitare cortocircuiti. Rispettando l’afflato sociale che ispira certe testimonianze centrate su micro-storie territoriali. Ma anche creando le condizioni per promuovere soluzioni che si discutono su tavoli lontani, per esempio quello dei colloqui di pace iniziati il 14 marzo a Ginevra e che hanno dieci giorni di tempo per passare alla storia o trovarsi ai margini delle stesse agenzie di stampa.
Superate le questioni sui soggetti ammessi e – per la Turchia – sulle forme che prenderà la questione curda, non è difficile arrivare a non far notizia. Basterà non trovare uno straccio di soluzione per un conflitto con caratteri cruciali negli ultimi due anni ma che e’ esploso in realtà sei anni fa e che ha contabilizzato 270 mila morti di cui quasi un terzo tra i civili, con metà della popolazione ora senza acqua e in condizioni di dichiarata insicurezza alimentare.
Gli analisti hanno parlato di una ipotesi di Erdogan per infilare nella geografia dell’Eufrate un “nuovo” territorio indipendente occupato dai rifugiati siriani con lo scopo sostanziale di impedire la riunificazione territoriale delle tre realtà curde che si esprimono nel cuore dei conflitti: quella in Iraq, quella in Siria e quella in Turchia.
Vero e’ che intanto il “cessate il fuoco” legittima proprio questo genere di eventi civili in cui le componenti che per semplificare chiameremo “umanitarie” possono avanzare un poco sul terreno appunto delle condizioni di qualità minima della vita. Che sono condizioni che danno risposte al ruolo delle scuole, all’apprendimento linguistico e dei mestieri, alle regole per l’accesso al lavoro, alle previsioni delle compatibilità socioeconomiche. Ad ascoltare i siriani rifugiati regolari in Turchia, che parlano a titolo personale, sono anche condizioni di normale odissea burocratica (tutto il mondo e’ paese): le case in affitto per loro al 20% in più degli indigeni, due fratelli con tutti i permessi in ordine che abitando in paesi diversi non si possono rivedere; una signora che non ne può più del marito e che qui non ottiene il divorzio, eccetera.
In questo quadro anche la politica e’ spinta ad essere un po’ più convergente.
Per esempio, qui a Gaziantep, siedono allo stesso tavolo a ragionare di questo genere di misure tanto la fondazione sociale femminile turca filo-governativa (KADEM) quanto la fondazione sociale femminile totalmente indipendente dal governo (KAMER). In Turchia oggi non e’ una cosa irrilevante. Con la differenza che una promuove un disegno di stabilizzazione e l’altra segnala l’aspirazione dei rifugiati siriani solo per progetti temporanei perché oltre l’80% spera di poter tornarsene a casa a guerra finita.
E’ la logica per cui ai colloqui di Ginevra arriva oggi il rapporto di 30 organizzazioni non governative di diversa natura (da Save the Children a Actionaid, a Care International) che chiede, a buoni conti, la priorità assoluta per le soluzioni umanitarie connesse all’emergenza “interna” della Siria.
La neurofisiologa italiana Anna Nava (Medici senza frontiere), che e’ tra chi lavora appunto in quella emergenza interna, dice – parlando allo stesso tavolo – che “in queste vicende non si gestiscono solo fatti, strutture, numeri; ma in primo luogo emozioni; senza un approccio preparato a questa complessità, tutto e’ imposto, niente e’ condiviso e metabolizzabile”.
Ogni spunto, insomma, allarga la mappa cognitiva. Quella territoriale, quella scientifica, quella politica, quella culturale, quella militare. Eccetera.
Il laboratorio della pace, in definitiva, e’ operativo come quello della guerra. Entrambi cercano di far coincidere strategie e azioni. La partita della Siria e’ una metafora della pagina che il mondo intero sta per girare. Non è ancora detto per scriverci cosa.