Ieri sera ho rivisto – dopo mezzo secolo – “Indovina chi viene a cena”, film emblematico della emersione dei diritti civili degli anni ’60 ed in particolare del problema della fragilità dei convincimenti “teorici” non razzisti che, quando la storia arriva all’improvviso nella tua vita privata, vengono messi in discussione “pratica” per tutto ciò che riguarda la relazione conforme al contesto.
Il film, diretto da Stanley Kramer, è del 1967, la città di ambientazione è San Francisco, tra media progressisti e gallerie d’arte contemporanea che creano un ambientamento valido fino ad oggi. Il contesto sociale è borghese (lei) e piccolo borghese (lui), ma lui è Sydney Poitier (oggi 90 enne) che – figlio di un postino in pensione e di una casalinga, ovviamente entrambi neri – interpreta un medico-ricercatore già di successo internazionale e dedito al “bene dell’umanità” così da essere di per sé un fattore che riequilibra la posizione sociale alta della coppia dei genitori di lei (un’americanina “datata”, interpretata da Kaharine Houghton) che sono nientepopodimeno che Spencer Tracy e Katharine Hepburn. Lui editore-direttore liberal, lei (premio Oscar per quel film, altissima professionista delle lacrime sull’orlo di tracimare) madre-moderna e sostenitrice della priorità dei sentimenti.
Le rughe che scavano il volto di Spencer Tracy diventano molto più solcate quando l’ipotesi del matrimonio tra la figlia bianchissima e il meno giovane – ma inappuntabile – medico nerissimo, rende chiaro che esso sarebbe fuorilegge (allora) in 18 degli stati americani, “con 100 milioni di concittadini contro”. E quando persino la colf nera, in casa da 22 anni, disapprova furiosamente.
Le pupille già un po’ strabuzzanti del papà-postino nero – con tutti i sacrifici fatti per far studiare il figlio – tendono a fuoriuscire quando è obbligato a fare i conti con una stravaganza tale per la quale si sente ancora di dettare i comportamenti al figlio 37 enne (che su questo argomento, duramente ma anche amorevolmente, lo zittisce).
Sarà un monsignore cattolico di vedute aperte a cogliere nella improvvisa e inaspettata rigidità del vecchio Spencer il tema di un evento che lo “scavalca a sinistra” – diciamo così – riducendogli all’improvviso il coraggio. E sarà proprio il vecchio Spencer a riprendere coraggio dal senso di fiducia delle due madri per costruire il sermone laico finale in cui si rimette sulla sua strada accogliendo l’autodeterminazione dei due giovani mettendo fine al conflitto (non sappiamo se convincendo del tutto il vecchio postino in pensione e la vecchia “tata”, ma questo è fuori dalla sceneggiatura).
I 18 stati americani ormai si sono messi in regola, dal ’68 (anno dopo l’uscita del film) a oggi in materia di normazione di diritti sulle parità etniche e di genere si è prodotta una letteratura oceanica (tanto che la stessa parola “razza” è stata bandita dal lessico istituzionale). Il “progresso” intervenuto nella storia del mondo sembrerebbe così lasciare nell’archivio (sia pure dorato, perché il film appartiene ai 100 film USA dichiarati “decisivi” per connotare la cinematografia americana) questa storia che appartiene anche ai limiti della cultura dell’happy end del cinema USA. Non siamo sicuri che per la nostra società occidentale il tema sia da considerare totalmente superato e ciascuno di noi può facilmente rispondere immaginando, con tutti i “paraurti” oggi possibili, l’arrivo a casa della propria figlia con un fidanzato nero o cinese. Ma il pensiero oggi va oltre a questo format. Sul cartello “The End” dell’ultima immagine – quella appunto del problema risolto che permette a tutta la compagnia di iniziare la “cena” – si capisce perché le reti tv (in questo caso la 7, ma poco prima era stato programmato da Rai3), abbiano deciso la programmazione a contrappunto delle date del nuovo protagonismo di Donald Trump.
Oggi il “nero” non arriva più a cena con gli abiti civili, la cravatta, la laurea a Yale e un cv invidiabile come è nel film di Kramer. Salvo una piccola parte dei siriani acculturati, l’improvvisata te la fa l’onda nera della disperazione che flotta nei sentieri drammatici del mare o scarpina in quelli braccati delle montagne balcaniche. Il “nero” non arriva più “a cena”, ma all’ora di cena attraverso i TG che un giorno ti propongono l’invasione, il giorno dopo ti insinuano che nella massa dei disperati si potrebbero celare i futuri terroristi, il giorno dopo ancora ti mostrano che i diritti di accoglienza dignitosa erodono i diritti dei nostri meno fortunati cittadini. Ed esplode così il “MAGA” vittorioso di Trump, il Make Again Great America (come se l’America non fosse il melting pot che ben conosciamo) ed esplode la promessa di vittoria del lepenismo, per arginare tutto ciò che è diverso da ciò che, grazie alla retorica di Trump, viene ora chiamato l’”egonazionalismo”.
“Indovina chi viene a cena” non è un film da archiviare. Ma un suo remake oggi dovrebbe riprogettare seriamente almeno le conclusioni. Con il realismo della critica sociale europea che nel cinema ha fatto forse meno commuovere sollecitando il buonismo, ma ha certamente reso evidenti i problemi del rapporto tra paura sociale e perdita della libertà e della democrazia.