Se sei un ex musicista, studente di cinema, compagno di università di quello che in futuro diventerà il tuo compositore di fiducia e se hai vissuto un anno a Parigi, sfamandoti di cinema, musica, arte e bellezza a tutte le ore, non puoi che essere in grado di pensare e scrivere grandi cose. Soprattutto se poi, ammetti apertamente di esserti innamorato di un certo cinema francese: “Per me il grande paradosso è che questi film, concepiti per un largo pubblico, erano, in realtà, avanguardistici”, ha dichiarato Damien Chazelle in un’intervista a Positif. Il regista, infatti, si è ispirato ai film di Jacques Demy, il regista francese che interruppe la serie di film super impegnati degli anni ’60 con musical colorati e vivacissimi come Les Parapluies de Cherbourg, Josephine e A Room In Town. “Probabilmente Demy è l’unico che abbia influenzato non solo questo film, ma tutto ciò che ho realizzato o voluto fare”, ha detto Chazelle. “Per me non esiste un film più formativo di Les Parapluies de Cherbourg. Lo amo profondamente”. E l’ultima opera del giovane regista, in pochissime parole, è proprio questo: un omaggio al cinema degli anni d’oro, con la consapevolezza che esso appartenga al passato e sia, come molti elementi inquietantemente ricorrenti nella pellicola, morto.
Il presente non può che imitare ciò che è stato, riproducendone – attenzione, non reinventandone – la grandiosità. I musical del passato raccontano di grandi stelle come Fred Astaire o Frank Sinatra, i protagonisti del musical del presente – per quanto bravissimi – non saranno mai all’altezza e non fanno altre che vivere di nostalgia nei confronti, per l’appunto, del passato. Consapevoli, quindi, di essere semplici controfigure della maestosità e della leggenda di ciò che fu. Il passato è irripetibile, un modus vivendi di quasi alleniana memoria. Nella sua circolarità – la scansione delle stagioni e della gamma cromatica della fotografia che fanno da cornice al film sono un anello musicale a sé – La La Land è una storia d’oggi che però potrebbe essere ambientata negli Cinquanta o Quaranta, come sottolinea il continuo alternarsi tra oggetti di scena moderna e d’epoca (basti pensare ai meravigliosi vestiti, alle suggestive musiche o al leitmotiv di certi film del passato, il rapporto conflittuale e casto tra uomo e donna). Solo i cellulari ci ricordano, in maniera fastidiosa, che siamo già negli anni Duemila.
“Where stars make dreams, and dreams make stars”, si diceva in Inland Empire della fabbrica dei sogni Los Angeles. E questa assolata città, capace di regalare colori caldissimi ed estremamente freddi nell’arco di una stessa giornata, è la città preferita di Chazelle. In La La Land è diventata un (il?) personaggio, una musa, una tela su cui si avvicendano incontri fatali, un traffico pazzesco, dove ognuno insegue i propri sogni, a volte invano, a volte con successo. Los Angeles è il palcoscenico perfetto (nella sua dimensione più finta e positiva) ed il suo dietro le quinte (nell’aspetto reale e più cinico) della storia di due sognatori disillusi che sperano di “incontrare la persona giusta” per realizzare le proprie ambizioni, che si definiscono amanti del cinema ma poi non hanno mai visto Gioventà bruciata (come nel caso di Mia) e che non hanno ben chiaro chi siano, chi vogliano essere. E’ la storia di passioni idealiste ed integraliste, per cui se una donna non ama il jazz “E allora di cosa parliamo?”, di scatoloni accatastati, di una vita precaria e zoppicante dove ,all’ennesima delusione, si torna tra le braccia dei genitori. “La La Land parla di una città epica, una città da grande schermo”, osserva il regista. “Quindi ho pensato che sarebbe stato fantastico girarla in wide-screen, per farla apparire grande e spettacolare come un classico musical di Hollywood“.
I nostri sognatori sono, però, viaggiatori solitari e vivono le loro ambizioni prettamente da soli, Mia nella costruzione della sua piccola opera teatrale e Sebastian nel suo progetto musicale. Gli assoli prevalgono sui duetti, il topos è quello del diverso, della sua solitudine: anche in coppia, quindi, si è fondamentalmente sempre soli. L’amore di Sebastian e Mia appartiene al cielo in cui danzano non a questa realtà, a questo tempo: nel quotidiano il successo si paga con il cuore e necessita di compromessi. Ecco perché Chazelle ha ambientato la prima scena musicale in un ingorgo sull’autostrada, nell’incrocio tra la 110 e la 105: “A Los Angeles le auto ospitano quasi tutte una o due persone, fa parte di quello che rende la città un po’ solitaria, ma riflette anche il fatto che è un vero paradiso per i sognatori. Cosa fai quando stai in macchina? Ascolti musica e canticchi oppure sogni. Ognuno ha il suo sogno, ognuno canta la sua canzone. Sei nell’universo della tua bolla, quindi quale posto migliore per far incontrare due sognatori come Sebastian (Gosling) e Mia (Stone)? Abbiamo usato le autoradio per creare un arazzo musicale cui a uno a uno si aggiungono tutti quelli che si trovano in autostrada in quel momento”.
Sarebbe sbagliato, però, considerare La La Land solo una pellicola sulla musica, sulle persone o sull’amore, perché Chazelle ci racconta anche della sua passione per il cinema, i colori, la vita. Ad esempio, dal valzer “a gravità zero” al planetario, a Duet, una delle scene preferite di Emma Stone, che inizia come la ricerca di una macchina parcheggiata e finisce sulle colline che circondano la città durando circa sei minuti, Chazelle ha voluto girare le coreografie vecchio stile. Niente montaggio. Ed è stato inflessibile, creando non poca apprensione alla coreografa Mandy Moore. Tutto questo ha richiesto un’attenta pianificazione logistica. Chazelle ha voluto anche girare le scene più grandi con un’unica ripresa, per ottenere quella che il direttore della fotografia di La La Land, Linus Sandgren, chiama “realtà senza interruzioni”: “Questo rappresenta sempre una sfida, soprattutto se vuoi avere la luce perfetta”, spiega Sandgren. “Damien non voleva aggiungere gli effetti dopo, voleva che tutto avvenisse davanti alla macchina da presa. La magia in questo film non è mai falsa, avviene tutto davvero”.
“Whiplash era montaggio, rifletteva il tempo e il ritmo delle percussioni, La La Land è l’opposto. Whiplash è un film di angoli retti, La La Land di curve”, ha detto Chazelle. “Il regista cui mi sono ispirato è Max Ophuls, un maestro dei movimenti di macchina nella storia del cinema. Tutti noi vorremmo poter muovere la nostra macchina da presa come Ophuls, e ovviamente Ophuls l’ha fatto prima della Steadicam, ma l’idea è quella di avere una macchina che senta la melodia, che diventi parte della coreografia”. Ancora una volta, quindi, musica e cinema per il regista possono parlare la stessa meravigliosa lingua. Chazelle è stato influenzato anche dal lavoro di macchina espressionista di Toro scatenato di Martin Scorsese: “Toro scatenato pone una domanda: cosa succede se metti la macchina da presa all’interno di un ring? E io ho voluto mettere la macchina all’interno del ballo, e dare così l’impressione che tutto si svolga intorno a chi guarda”.
Dicevamo del colore. Chazelle ne è quasi ossessionato. Basti pensare che i personaggi di Mia e Sebastian si cambiano d’abito cinquanta volte. La costumista Mary Zophres ha avuto come fonte di ispirazione film come Les Parapluies de Cherbourg, Bandwagon e Swingtime. “La camicetta da barista di Mia è ripresa da un fotogramma di Ingrid Bergman degli anni ’40”, ha detto Zophres. “Ci sono anche degli screen test in cui Bergman ha un abito rosa accollato che lascia scoperte le spalle e Mia indossa qualcosa di molto simile che abbiamo trovato in un negozio vintage nella San Fernando Valley. È il tipo di vestito che si portava cinquant’anni fa, ma che va benissimo anche ora”. Non solo, perché in ogni respiro di questa pellicola c’è tantissimo David Hockney, tra i più noti ed affermati esponenti della Pop art anglosassone dall’inizio degli anni sessanta, Edward Ruscha, anch’egli associato alla Pop art e profondamente legato alla cultura popolare, alla grafica commerciale ed all’altra grandissima fonte d’ispirazione di Chazelle, Edward Hopper.
Hopper è, quasi certamente, l’altra anima che si nasconde negli spazi virtuali creati dai raggi di luce e dalle ombre, nelle inquadrature che tagliano gli ambienti della Los Angeles di Chazelle. Il colore deve essere puro, cromaticamente perfetto, e l’attenzione di chi guarda deve essere sul punto luminescente, e consolatorio, dell’immagine. Ed esattamente come nei quadri di Hopper, molte delle persone che compaiono in La La Land, basti pensare al marito di Mia o agli amici dei due protagonisti, sono dei pupazzi interscambiabili, delle maschere, non delle “persone”.
La La Land è una visione fluida, morbida, cadenzata da tanti piano-sequenza ed immersa in una tavolozza di colori (apparentemente) vivi, che passano dal violaceo al blu. Una suggestiva tavolozza nella quale però, come dicevamo all’inizio, siamo inseguiti da quella che sembra essere l’amara morale del regista: troppo “io” per un “noi”. Come se l’ amore viscerale per l’arte renda impossibile una relazione amorosa, come se diventare qualcuno implichi rinunciare a qualcuno. Mia e Sebastian ci provano, quel grande amore che tutti vorremmo come una città di stelle tutte nostre, come una folla in cui scorgiamo l’eccezione, quel sentimento rassicurante e assieme destabilizzante, loro due lo trovano per poi smarrirsi. La vita fa il suo corso e ne divide i destini, mentre ognuno realizza se stesso. Quindi? Meglio privarsi di ogni illusione o smarrire il sogno? Forse la risposta è racchiusa in quel saluto finale tra Mia e Sebastian, in quel “io ti amerò sempre”, in quella promessa custodita negli anni perché, forse, è proprio l’amore l’opera d’arte migliore di tutte, capace di sopravvivere persino al tempo che passa.
E poi, quella nota finale: chiudere il film con uno scambio di sguardi, dove sono soltanto gli occhi a parlare. In Whiplash il maestro benedice la nascita della sua creatura; in La La Land due innamorati ricordano il bello che hanno creato.
“Here’s to the ones who dream, foolish as they may seem”.