E’ certo che al tempo di Machiavelli il rapporto tra potere e consenso non era paragonabile ai tratti che esso è andato assumendo nell’età contemporanea. Per tante note ragioni: il carattere perenne delle campagne elettorali, il ruolo che i media hanno assunto, il pluralismo dei partecipanti, la dimensione del voto universale. Il pensiero del “Fiorentino” resta tuttavia paradigmatico su un punto di metodo ineludibile per il Principe: prima fare “le imprese”, poi comunicarle.
In un certo senso questo paradigma si è spinto nel tempo fino a quasi tutto il Novecento, diciamo fino alla fine dell’egemonia dei media tradizionali e all’inizio dell’età di internet. Assai insidiato da molti anticipatori del “comunicazionismo”, ma ancora avvertibile nel ceto politico, pur rallentato dalla bassa velocità decisionale del sistema, della “prima Repubblica”.
Poi si forma – in Italia con l’inedito modello di Berlusconi, ma altrove nel mondo con tante forme ed espressioni – un nuovo paradigma che ha legittimato e giustificato il diritto della politica di vivere se stessa con modalità, prima equivalente poco alla volta prioritaria, di set comunicativo (annuncio del cambiamento) in modo più strategico rispetto al set legislativo (progettazione del cambiamento).
E’ naturale che i media abbiano immensamente assecondato questo modello che, senza essere troppo contrastato da esempi confinati nella loro quasi anacronistica sobrietà (si pensi all’attuale presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, sorprendentemente ma non casualmente finito poi per segnalare la crisi simbolica della “seconda Repubblica ad alto volume”), ha stinto in tutti gli schieramenti. Ed ha prodotto leader con la stessa impronta: Silvio Berlusconi, un precursore-innovatore ispirato sempre a indirizzare il suo naso dove il marketing lo sospinge e a caratterizzare con lo stesso ottimismo della pubblicità i suoi messaggi ; Beppe Grillo, capace di teatralizzare in forma globale l’azione politica intesa come rancorosità collettiva e quindi a contrastare frontalmente la comunicazione “rassicurativa”; infine Matteo Renzi, entrato in partita per avere fatto saltare nel PD l’ultima barriera di una “sobrietà” (si pensi a Enrico Letta) che in quel quadro appariva ormai ai militanti e all’apparato destinata al naufragio, costruttore di una affabulazione al tempo stesso popolare e giovanilistica capace di mutuare da Berlusconi l’ottimismo e da Grillo la semplificazione.
La fase conclusiva della “seconda Repubblica “ – che in caso di successo del referendum del 4 dicembre avrebbe aperto le porte al cantiere della “terza”, mentre ora deve prolungare ancora la sua difficile transizione – disegna una politica italiana tripolare in cui Berlusconi ha compiuto (con prima riuscita sperimentazione la Sicilia) l’ennesimo miracolo di ricompattamento attorno a Nello Musumeci di un centrodestra altrimenti allo sbando e in cui Grillo deve fronteggiare ogni giorno il rischio di implosione dei suoi stessi impreparati cantieri di governo (Roma in primis), mentre Renzi – prendendo in un certo senso forza dal permanere in campo degli altri due – gioca ancora tutte le sue carte nell’idea che il set comunicativo generale del sistema politico resti il paradigma conclamato.
Ed è proprio per contrastare questa ipotesi che, nel terzo polo che ha comunque riassegnato i comandi a Renzi (le primarie), la morsa del format machiavellico (“prima fare le imprese poi comunicarle”, da estendere a regola di stile simbolico generale) può contare ora su due leve: quella impersonata dal capo dello Stato (mai venuto meno al suo modello) e quella impersonata dal capo del Governo (a sua volta fedele a se stesso e quindi, per questo, non sospettabile di trasformismo).
Apparati produttivi, sistema degli interessi, centri della conoscenza, parteggiano per lo più per questa svolta di metodo (che avrebbe potuto anche contare sull’operazione dell’ex-sindaco di Milano Pisapia di portare la sinergia di una parte non irrilevante della componente di “sinistra” del centrosinistra, operazione oggi dai caratteri molto incerti). Ma tutto ciò dispone di una netta minoranza azionaria rispetto al mercato elettorale, fatto di correnti, radicamenti, organizzazioni del voto e delle preferenze che è ormai il fronte decisionale più autorizzato a regolare il processo di conferma o sostituzione dei parlamentari.
Continuità o discontinuità?
Lo scontro – che passa attraverso le influenze sulla rappresentazione mediatica – da risolversi prima di dichiarare il “campo aperto” della battaglia elettorale, è dunque tra i due fronti che influenzano la politica: quello cultural-produttivo e quello organizzativo-mediatico che si giocano la partita attorno alle due seguenti posizioni.
- La posizione di continuità che dice: visto che gli altri due poli del sistema mantengono ancora in vita la priorità del “set comunicativo” come regola (simbolica, linguistica, procedurale, comportamentale, eccetera) del far politica, è meglio starci dentro ancora lucrando sui dati che possono confermare andamenti più vendibili (la ripresina) circa le condizioni del paese; starci dentro fino a portare a casa un risultato elettorale competitivo, anche se ciò dovesse non determinare una certa indicazione circa la formazione del nuovo governo.
- La posizione di discontinuità che, al contrario, dice: visto che gli altri due poli del sistema restano legati a un parametro che si è usurato e che ha fatto crescere l’astensione, meglio trovare le condizioni “oggettive” per una rappresentazione plurale della capacità di governo, non legata alla leadership ma legata ad un gruppo dirigente allargato idoneo a conseguire risultati, far leva su sentimenti di ritorno al voto di settori in astensione (magari con sinergie da ritrovare in ambito civico), così da diventare dopo le elezioni il gruppo di liquidazione della “seconda Repubblica”, da intendersi non tanto come sovvertimento costituzionale ma come sovvertimento culturale.
La strategia della sobrietà e del silenzio comincia ad essere oggetto di dibattito. Il Foglio, per esempio, dedica al tema la prima pagina di oggi (lunedì 4 settembre) a firma di Francesco Cundari, “Il silenzio come un vaccino”: “L’Italia, ma non solo. La strategia dell’assenza sta diventando un arma universale contro l’ansiogeno esercito dei vaffa. Indagine sui successi di una classe politica perfettamente alternativa alla tweet generation. Gran fenomenologia del passo felpato”.
Questo breve bimestre (settembre-ottobre) è il tempo di gioco, tuttavia in un campo anomalo – le elezioni in Sicilia – che per ora si va profilando come territorio di frammentazione dei progetti del centrosinistra e come riduzione del tripolarismo allo scontro tra destra e grillini. Ma il test siciliano è ormai in prima pagina sui media. Dunque il modo con cui si percepirà il senso di questo passaggio, per come verrà raccontato dalla politica nazionale e come verrà rappresentato dai media, porterà forza e argomenti all’una o all’altra delle posizioni accennate.