Nei giorni scorsi il Parlamento europeo – soprattutto a causa dell’opposizione del Partito popolare europeo – ha respinto la proposta di assegnare sulla base di liste transnazionali una parte dei seggi lasciati vacanti dal Regno Unito a causa della Brexit. Il significato della proposta – nata su iniziativa di Francia e Italia – era quello di attribuire dei seggi in Parlamento europeo non sulla base di una tradizionale ripartizione nazionale tra gli stati membri ma sulla base di una logica esplicitamente federalista e, in qualche modo ‘visionaria’.
I seggi europei su liste transnazionali: un’occasione persa
Se la proposta fosse passata avremmo avuto per la prima volta dei parlamentari europei eletti direttamente dagli europei e in rappresentanza di tutti gli europei piuttosto che eletti dai propri concittadini in rappresentanza del proprio paese. Questa proposta avrebbe avuto un’altra importante conseguenza: la progressiva ridefinizione degli schieramenti politici all’interno del Parlamento europeo sulla base di una maggiore integrazione tra eletti sulla base di scelte culturali, ideali e politiche piuttosto che soltanto sulla base degli interessi nazionali. Già all’inizio del 2017 si era fatto portavoce di questa proposta per l’Italia il governo di Matteo Renzi attraverso l’attività del sottosegretario agli Affari europei Sandro Gozi. Alla fine di settembre 2017, la stessa proposta veniva rilanciata dal presidente francese Macron nell’ormai famoso discorso alla Sorbona. L’aula di Strasburgo ha rinunciato a questa prospettiva che avrebbe certamente modificato in modo profondo la struttura politica dell’Europa. Soprattutto i partiti politici europei avrebbero potuto giovare di una iniezione di mentalità transnazionale e comunitaria in una fase storica in cui i rigurgiti sovranisti e populisti sembrano avere il sopravvento, moltiplicando le linee di frattura all’interno delle forze politiche europee e favorendone la frammentazione.
L’onda populista investe i partiti tradizionali
La diffusione dell’onda populista, infatti, comincia a diventare un problema per tutti i partiti tradizionali, sia di destra che di sinistra. I partiti socialisti si trovano in estrema difficoltà: basti pensare a partiti di nobile e antico lignaggio come i socialisti francesi o spagnoli, da una parte, o come i Tories britannici o i gollisti francesi dall’altra. Come dobbiamo leggere, anche in Italia, la profonda divaricazione e le continue polemiche che scuotono i rapporti tra Berlusconi e Salvini o tra D’Alema e Renzi? Che ruolo giocano in queste polemiche apparentemente soltanto personalistiche le trasformazioni profonde provocate dall’avanzata delle idee populiste?
Nell’ultimo decennio, in parte a sinistra, in parte a destra, in parte come miscela di destra e di sinistra, incalzano nuovi partiti (a volte solo rinnovati, come la Lega) che sfidano i partiti tradizionali. I fan delle forze populiste sostengono che le loro campagne hanno successo perché si focalizzano su temi che i partiti tradizionali hanno rifiutato o abbandonato. In realtà, questi partiti abbracciano una logica squisitamente sovranista rilanciando il protezionismo economico e sociale. La domanda è: siamo di fronte a una fase di transizione o i movimenti populisti sono destinati a diventare un credibile, serio e permanente cardine del sistema politico? E quali strumenti saranno necessari per riorientare l’Europa verso una maggiore integrazione, colmando il tradizionale deficit democratico che rischia di allontanare i cittadini da Bruxelles?
La sfida alla liberaldemocrazia
In un numero del Journal of Democracy, pubblicato dall’America’s National Endowment for Democracy, Takis S. Pappas, uno studioso greco che vive in Ungheria, offre un maneggevole compendio dei partiti populisti europei. Pappas elenca ventidue differenti partiti che definisce “sfidanti della liberaldemocrazia”. Alcuni di questi sono al potere in una coalizione, altri sono al potere da soli. La lista è molto ricca e potrebbe anche sorprendere. Pappas qualifica infatti come populisti partiti apparentemente molto diversi: partiti di sinistra come il socialista Pasok, che ha governato la Grecia per 22 anni; lo UKIP di Nigel Farage che è una forza indipendentista e ‘terzista’; i partiti che attualmente governano in Polonia e in Ungheria che potrebbero essere annoverati, più banalmente, da altri punti di vista, come dei partiti conservatori guidati da leader carismatici.
Concorrenza permanente o tendenza passeggera?
La domanda che molti analisti si fanno in Europa è se questi nuovi – o rinnovati – soggetti politici populisti abbiano conquistato voti in modo permanente e se, pertanto, stiano diventando concorrenti permanenti per il governo nel nostro sistema politico. Oppure se si tratti soltanto di custodi temporanei di quei voti che – prima o poi – ritorneranno ai partiti tradizionali quando i loro elettori avranno completato il proprio ‘tradimento’ e i temi conflittuali saranno stati riassorbiti nelle identità politiche classiche. Secondo Pappas, questi partiti non partecipano della democrazia liberale, ma la sfidano: una volta al potere, afferma Pappas, i populisti si rivolgeranno contro la democrazia e scavalcheranno le sue regole se queste saranno un ostacolo ai loro obiettivi. Molti osservatori e politici interessati, ovviamente, sia a sinistra che a destra, contestano questa scelta dilemmatica tra populismo e liberaldemocrazia ritenendo che si tratti di uno slogan di parte per costringere gli elettori a evitare i partiti populisti e a continuare a votare i partiti tradizionali senza pensarci troppo.
In effetti, i termini ‘populismo’ e ‘liberaldemocrazia’, sono usati in molti casi con superficialità e possono essere argomenti molto scivolosi. I critici del populismo, tra le altre cose, lo descrivono come un movimento fortemente personalizzato e radicato in un principio leaderistico, ostile al “regime dei partiti” e basato su una miscela di idee di destra e sinistra in una nuova sintesi assai vaga. Proprio a causa di questa analisi alcuni esponenti di sinistra e destra ‘classiche’ annoverano tra i populisti anche personaggi come Matteo Renzi in Italia ed Emmanuel Macron in Francia.
Renzi e Macron: populisti anche loro?
Secondo Marco Revelli, uno dei più importanti studiosi gauchiste italiani, il salto nella politica nazionale dell’ex primo cittadino di Firenze aveva lo scopo di “intercettare con uno stile populista” i voti in libera uscita dei partiti tradizionali logorati. Dopo la parentesi di Enrico Letta, il governo Renzi è stato caratterizzato, secondo Revelli, da un“populismo ibrido”, frutto della miscela di diversi fattori: il populismo mediatico ereditato da Berlusconi, il populismo “anticasta” simil-grillino della rottamazione, il populismo centrista del “Partito della Nazione”, il populismo delle mance da 80 euro. In questa analisi, ovviamente, la bocciatura al referendum costituzionale del 4 dicembre del 2016 assume un significato preciso: il popolo (quello vero) schierato con la Costituzione contro “il populismo dall’alto”. Una analisi assai ‘confortevole’ per quella sinistra italiana che, rimasta schiacciata da antiche tare culturali, non riesce a decidersi per la modernità e preferisce al riformismo incarnato dai governi Renzi e Gentiloni in questi anni il mito perduto della sovranità nazionale (Fassina) o l’alleanza frontista e populista con il M5S (Bersani).
Anche Macron subisce critiche simili. Secondo John O’Sullivan, un editorialista e intellettuale conservatore britannico, in passato tra i consulenti di Margaret Thatcher e ancora oggi molto ascoltato nel mondo dei Tories, Macron è populista per diverse ragioni: ha esplicitamente denunciato i partiti esistenti come corrotti e incompetenti, ha fondato un partito personale completamente centrato su se stesso (EM sta per En Marche e per Emmanuel Macron), ha selezionato i candidati e i membri del governo sulla base della lealtà verso di lui, ha costruito un programma di politiche che miscela vantaggi alle imprese private con un po’ di liberalsocialismo combinando insieme sinistra e destra politica nel contesto francese. Infine, ha cercato di presentare se stesso come una sorta di monarca repubblicano a partire dalla esagerata cerimonia di investitura. Viceversa, osserva O’Sullivan, “Macron non è mai stato descritto come un populista. Piuttosto il contrario: il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, ha salutato la sua elezione come l’inizio della fine del populismo e il New York Times ha visto in lui una figura capace di sconfiggere il populismo. Tutto ciò perché l’opinione generale dell’establishment di Bruxelles approva le sue tendenze ideologiche che comprendono politiche familiari allo stesso establishment: il multiculturalismo, i confini aperti, l’unione bancaria per sostenere l’euro, un rinato europeismo militante”. Insomma, per O’Sullivan la tecnocrazia comunitaria e l’intellighenzia liberal vedono i partiti populisti come un pericolo per queste politiche e, pertanto, preferiscono ignorare gli aspetti populisti della vittoria di Macron.
L’orgoglio europeista e riformista
Anche in questo caso, tuttavia, l’analisi appare un po’ ‘confortevole’. In primo luogo, perché la mediatizzazione e la leaderizzazione sono ormai tratti caratteristici della politica in tutto il mondo (e non necessariamente negativi: potremmo dire che dipende dal modo in cui sono ‘usati’). In secondo luogo, perché basta leggere il discorso della Sorbona del Presidente francese per capire che la vera minaccia per i conservatori britannici (e anglosassoni in generale) è Macron stesso come imprevedibile campione di quell’europeismo e di quel riformismo liberalprogressista che parevano in agonia dopo la Brexit.
L’adozione di liste transnazionali per l’attribuzione dei seggi lasciati vacanti dal Regno Unito andava proprio nella direzione di un europeismo spinto. Il riformismo liberale avrebbe potuto celebrare un successo con l’affermazione di una democrazia europea più aperta ai cittadini. Difficilmente oggi qualcuno avrebbe potuto sospettare Renzi e Macron di populismo o di elitismo, a seconda dei punti di vista. Viceversa, il Ppe ha preferito mettersi di traverso: in questo modo ha confermato il sospetto di una deriva del centrodestra europeo verso posizioni nazionaliste e sovraniste, queste sì in linea con la tendenza populista del momento.
Proprio in questi giorni si torna a parlare di possibili intese in futuro tra Renzi e Macron, intese capaci di far saltare gli schemi di pensiero ai quali ci siamo abituati da decenni e che non funzionano più per nessuno. A temere questa intesa sono stavolta i socialisti europei, in grave crisi di consensi, preoccupati di fronte al rischio che il Partito Democratico – che oggi rappresenta tutto sommato uno dei pochi partiti del socialismo europeo ancora in buona salute – possa lasciare il gruppo parlamentare socialista. L’ipotesi per adesso appare fantasiosa. E tuttavia la partnership tra Renzi e Macron resta necessaria anche per i prossimi anni e in vista delle elezioni europee del 2019. All’Europa servono sintesi nuove e più avanzate.