Il marketing elettorale ha prodotto partiti comunicativamente acchiappatutto simili, facendo crescere ai propri lati offerte protestatarie che sono molto più estese di ciò che sarebbe fisiologico in una democrazia occidentale.
Stefano Rolando
In una campagna elettorale i più smettono di ragionare
Chi si candida – insieme a coloro che lo circondano – è ossessionato dallo sforzo di raggiungere e convincere un numero di cittadini sovrastante e finisce per utilizzare le formule sintetiche e banalizzanti che i media – anche i piccoli media territoriali – di gran lunga preferiscono in quella sorta di rodeo dell’insulto che sono le risse a chi grida di più tacitando gli avversari.
Chi non ha legami o connessioni con l’offerta è diviso in due mondi: coloro che aumentano la permeabilità per verificare la propria intenzione; coloro che diminuiscono la permeabilità a loro volta divisi in due parti, tra chi non intende cocciutamente spostarsi dai propri vecchi intendimenti e chi ha sotterrato i vecchi intendimenti con il ritiro dal campo di gioco, scegliendo l’astensione.
Chi punta sull’astensione ha così spento le antenne, ha deciso che la miglior politica è quella di lasciarla fare agli altri, ne pagherà le conseguenze ma intanto non si lascia penetrare da nessun assalto invocatorio.
In buona sostanza il segmento di chi segue, partecipa, ascolta con distanza critica e discernimento resta un segmento di realtà che la sociologia elettorale misura come una non indifferente minoranza. Ma appunto come una minoranza.
Uno dei fattori che ha trasformato la partecipazione elettorale in una sempre più scarsa esperienza cognitiva e di responsabilità è rappresentato dalla profonda modifica della comunicazione – ovvero della narrazione – che la politica interpretata dai partiti è nel tempo andata esprimendo.
Fa una certa differenza – in meglio e in peggio – il contenuto comunicativo del civismo territoriale che, nei casi buoni, comunica attorno a tipologie di intervento specifiche e concrete, mentre nei casi peggiori agisce riciclando nel finto civismo ogni tipo di imbroglio comunicativo. La dimensione elettorale nazionale – come è quella del 4 marzo – vede però in larga maggioranza all’opera i partiti e quindi in questo caso lo schema citato si applica senza troppe eccezioni.
Di quale trasformazione si tratta?
Si tratta dello stesso genere di mutamento che è prevalso nell’offerta commerciale dei prodotti di consumo. L’imporsi del marketing rispetto alla cultura comunicativa (viene prima l’uno o l’altra? eterno duello) e soprattutto della ossessione del marketing per privilegiare il posizionamento rispetto a qualunque altro paradigma. Comprendere, interpretare e spiegare sono cose assai meno importanti che curare ogni tattica possibile per raggiungere non solo il proprio pubblico di tradizionale appartenenza e fiducia, ma tutti i pubblici possibili – confinanti, similari, contigui, ma anche poco confinanti, poco similari e per nulla contigui – nella battaglia per le “quote di mercato” che avviene senza esclusioni di colpi nella civiltà della concorrenza.
Un esempio di immensa evidenza è rappresentato dal mercato delle automobili, un prodotto che – insieme all’abbigliamento e alla cosmetica – costituisce sostanza privilegiata del cosiddetto “status symbol”, insomma biglietti da visita che rafforzano e talvolta protesizzano la propria condizione identitaria.
Una volta le automobili dividevano il mercato: piacevano molto o non piacevano per nulla, erano fortemente caratterizzate nella linea e nelle prestazioni così da avere ciascun modello fan e nemici. Il marketing automobilistico ha ridotto a pochi casi questa tendenza, ha imposto al design una sorta di generale omologazione, ha eliminato quasi tutti i tratti fortemente caratterizzanti (chi produrrebbe oggi una Deux cheveaux ?) e ha fatto di ciascun modello in ciascuna classe di prezzo un oggetto il più simile possibile ai suoi concorrenti.
Ed eccoci ai partiti politici
Quelli che – per esempio in Italia – sono stati ricostituiti all’indomani del fascismo, nel clima di libertà e pluralismo riconquistato, avevano il loro racconto centrato su simboli di radicamento sociale e valoriale. Contavano le rappresentanze sociali, contavano gli elementi simbolici di certe idealità (il lavoro, la speranza, l’avvenire, la religione, la patria, eccetera) e contavano le narrazioni in cui i partiti volevano essere “parti”, quindi distinguersi, caratterizzarsi, scegliersi elettorati senza reciproco infingimento. La seconda Repubblica è stata poi il grande cantiere di una immensa trasformazione comunicativa. Via innanzi tutto la memoria di quel passato prossimo, negli anni ’90 considerato un disvalore elettorale (quella che in questi giorni, commentando Macerata, il Guardian ha chiamato “l’incapacità dell’Italia di fare i conti con il passato”) . Poi via i simboli sociali. Poi via valori troppo identificabili. Elementi naturali (fiori, piante, alberi) o climatici, avvolti nel cromatismo di una certa e vaga opposizione allo scontro storico tra rossi (sinistra), bianchi (democristiani) e neri (fascisti): quindi blu, azzurri, verdi, gialli, arancioni…Ma soprattutto attenzione alle parole, agli slogan, alle parole d’ordine, Tutto omologato a territori in cui se sei elettore di sinistra puoi cascare nella seduzione di una offerta di destra e viceversa. La gran maggioranza di elettori poso istruiti e poco raffinati nell’analisi hanno per un po’ accettato l’omologazione già accreditata dai supermarket. Fino a quando l’insorgenza identitaria – magari brutale, stressata, sollecitata da condizioni di disagio economico e sociale – è andata cercando spunti per contrastare questa generale democristianizzazione (ovvero la trasversalità di un posizionamento acchiappatutto) ritrovandosi nel “vaffa” grillino, piuttosto che nella xenofobia leghista, nella vetero-simbologia di una sinistra “dura e pura” piuttosto che nella vetero-simbologia di una destra “virile e patriottarda”. La velocità di crescita – ben oltre le soglie fisiologiche di una democrazia occidentale – di queste caratterizzazioni è stata pari alla precipitazione ai minimi storici (dal 3% al 4% stabile) della reputazione dei partiti politici nelle rilevazioni sulla fiducia istituzionale dei cittadini. Colpisce, insomma, che finora quella che potrebbe essere considerata una gigantesca traduzione cinica della missione comunicativa e relazionale dei partiti, omologata al processo di vendita dei prodotti di consumo, mentre tiene alta la reputazione di tali prodotti ha schiacciato stabilmente la reputazione sociale dei partiti stessi.
In questo quadro gli ultimi venti anni – il fenomeno è ovviamente internazionale e ben studiato da politologi e comunicatori – hanno visto queste potenti alterazioni in cui riprendendo le osservazioni sul professionismo politico di Max Weber, secondo cui il professionista era colui che viveva di e per la politica e che era competente di politica, al contrario, il nuovo professionista della politica – nel senso di management degli orientamenti comunicativi – vive anche, e spesso soprattutto, di altre risorse e offre competenze estranee all’interno della politica. Il che determina, tuttora, aree di disagio e di resistenza a questo generalizzato adattamento, ma anche un profilo ormai di netta trasformazione che permette di misurare efficacia negli esiti tecnici e stravolgimenti culturali ed etici.
Inquietanti fenomeni entrati in agenda
Alcuni di questi stravolgimenti sono alla base di fatti che possono considerarsi reattivi, in cui si è riscaldato il ”brodo di cultura” di non pochi fenomeni che, per esempio, questa campagna elettorale in Italia ha deciso di mettere in prima pagina, come scoprendo per la prima volta violenza, antisemitismo, rigurgiti fascisti, intolleranza. Il Movimento 5 stelle ha frenato in questo processo di accentuazione dei caratteri identitari “contro”, scegliendo – pur in forma abbastanza contrastata – la figura di Luigi Di Maio come leader e quindi muovendo una leva di apparentamento alla comunicazione “di sistema” entro cui mantenere se possibile la contraddizione di collocare contenuti più blandamente “antisistema”. Vedremo se le urne coglieranno questa modificazione, che potrebbe mettere in frenata l’ipotesi di un vistoso successo elettorale (ipotesi per cui propendo, rispetto a quella contraria, pure ammissibile).
Quanto al PD è evidente che voler portare fino in fondo questa analisi – che probabilmente sarà una via obbligata, nella sua durezza, dopo gli esiti elettorali – dipenderà dal recupero di un coraggio analitico che pare molto appannato.
Ed è comunque evidente che riformisti e liberali – quelli che Macron ha ricollocato in un dialogo forzato pena la loro disfatta e facendone anzi una miracolosa operazione di successo – sono i primi ambiti che avrebbero necessità di riaprire gli occhi e recuperare una loro forte e per certi versi anche tradizionale caratterizzazione.
Estendendo e modernizzando il loro perimetro di tradizione a condizione di avere elementi di analisi della situazione e basi di cultura politica generale per sostenere questo recupero che non richiede una nuova narrazione fatta solo di aggettivi, ma fatta soprattutto e sostanzialmente da concetti intelligenti e idee valide. Chi ha studiato e si è preparato qui farebbe la differenza (che per ora fa solo Macron, che almeno ha certamente studiato). E il banco di prova in arrivo è più complicato del nostro rompicapo governativo. Riguarda come salvare l’Europa e il suo ruolo senza il quale – la frase ritorna ad essere scritta in nuovi libri capaci di rieditare vecchie buone idee – l’Italia non ha futuro.