Una discussione attorno al saggio “Salvare l’università italiana” (Capuano, Regini, Turri – Il Mulino 2017)
Ho preso parte ad una giornata presso la CRUI (Conferenza dei rettori delle università italiane) che ha avuto al cuore delle materie trattate la crisi sostanziale (risorse, disparità, visione strategica) del sistema universitario del nostro paese e che, al termine della discussione tra i rettori, ha permesso di apprezzare un trattamento scientifico del problema, cioè la presentazione del saggio di Giliberto Capuano, Marino Regini, Matteo Turri Salvare l’università italiana (edito dal Mulino alla fine dello scorso anno).
Non posso render conto, per naturale riservatezza dell’incontro, del dibattito di merito in seno alla CRUI in ordine alle diffuse apprensioni circa il nuovo piano di riparto delle risorse finanziarie (che forse sarà fatto dal governo uscente, ma anche no se si profilasse una più rapida soluzione post-elettorale) non potendosi prescindere dalle differenziazioni che questo sistema presenta: nord e sud, grandi e piccole, urbane e decentrate, statali e non statali, specialistiche e generaliste, eccetera. Molto difficile dunque promuovere una rappresentazione unitaria, ma anche poco sostenibile reggere l’urto dei cambiamenti – e semplicemente anche l’urto della quotidianità del presente – con risposte istituzionali centrate sulla “media statistica” di quei valori differenziati.
La stessa volontà emersa di porre, nel momento di varo della nuova legislatura, in modo argomentato l’ineludibilità di una inversione di tendenza di ciò che viene considerata una decrescita ovvero un disinvestimento nell’università italiana, con una spesa complessiva che oggi è solo dell’1% del PIL, mentre personale docente e personale tecnico—amministrativo nell’ultimo decennio risultano calati del 20%, appare come un passo tanto necessario quanto difficile e soprattutto con una criticità di relazione con il sistema decisionale del paese.
Posso però rendere conto del contenuto del saggio discusso e disponibile nelle librerie.
Nella parte introduttiva è esposta una efficace sintesi dei fattori di crisi. Tra cui si legge il semplicismo della analisi, al contrario le complicate ingegnerie delle ricette, in particolare un intreccio di colpe che riguarda governi e politica, sistema economico (imprese) e quelle che il libro di tre professori universitari chiama le “oligarchie accademiche”. Ne risulta – anche per improprietà della narrazione mediatica – un “clima culturale sfavorevole”, che per trovare vie di uscita obbliga a confrontarsi con gli altri paesi soprattutto europei.
In Europa infatti tutti hanno dovuto fronteggiare nel tempo un comune processo di massificazione, ma molti paesi sono presto passati ad una “seconda fase” in cui si è favorito l’emergere di segmenti competitivi e in cui la politica ha promosso un “governo a distanza” cioè facendo crescere condizioni di autonomie reali. Fase che, a giudizio degli autori, è mancata in Italia. Per quali ragioni? Il libro ne discute quattro: un certo opportunismo burocratico del sistema, le cosiddette “riforme” varate risultate di fatto inattuate, una sostanziale selezione di classe sociale con scarsa produzione di laureati e infine la spaccatura degli atenei in una serie A e una serie B.
Quali sono le proposte che, nella seconda parte del saggio, trovano posto?
Un cambiamento sostanziale dei processi di valutazione, mettendo fine allo scontro tra una valutazione iper-tecnicistica e il partito della non valutazione. La capacità di assumere dati e analisi per progettare il futuro con obiettivi misurati nel medio e anche lungo termine. La possibilità di riportare a centralità la didattica. Una sostanziale politica di sostegno al diritto allo studio. E solo nel quadro di questa manovra integrata la massiccia battaglia per l’allocazione adeguata delle risorse. Al termine, gli autori propongono due misure che vengono considerate “fattori di detonazione”: attuare strumenti della contrattualizzazione poliennale dei rapporti tra ministero e atenei (mutuando il modello francese); concentrare le grandi scuole di dottorato obbligando gli atenei a specializzarsi nelle aree di probabilità di eccellere.
Un contributo.
Nel contesto di pareri differenziati su questa comunque interessante analisi, qui riferita per sommi capi, il mio contributo ha riguardato l’ottica della mia competenza, ovvero la modalità di negoziare condizioni di adeguamento partendo da una complessiva ristrutturazione di un fattore che ora pare assente, cioè una mirata, moderna e socialmente radicata politica di reputazione. Ho infatti osservato che la comunicazione universitaria oggi percepibile e prevalentemente centrata sulle immatricolazioni, fornendo quindi promesse semplificate e mirabolanti ma non un racconto serio del vantaggio sociale della produzione e della certificazione di conoscenza. Da qui un ruolo sociale flebile dell’università, che non dispone per lo più di una narrazione idonea ad influenzare il sistema mediatico. Ho anche osservato che le misure di public engagement, pur tardivamente sviluppate, vengono ancora concepite come “solidarismo” e non come strumento di “patti territoriali per lo sviluppo” che potrebbero fare dei territori buoni alleati della reputazione universitaria. In terzo luogo ho osservato che oltre alla centralità della didattica anche la ricerca applicata dovrebbe assumere ben altro valore nelle valutazioni dei concorsi, così da portare tra l’altro l’opinione degli utilizzatori (studenti) e delle imprese nei fattori di valorizzazione del ruolo delle università.
“Salvare l’università italiana” insomma non è un tema in agenda finché le università mantengono ciò che gli autori chiamano “l’autoreferenzialità degli atenei e degli accademici”, così come non si cambia verso se non comprendendo (bella espressione del capitolo che chiude la “analisi delle colpe”) le “colpe delle parole” e dunque l’insufficienza comunicativa del sistema universitario.