Nell’imminenza di una conferenza sull’argomento a Conakry (Guinea)
Nel corso della settimana entrante si svolge a Conakry, capitale della Guinea, una conferenza bilaterale promossa dalla Fondazione dell’Università IULM di Milano, presieduta dall’africanista prof. Angelo Turco, e dalla Universitè Général Lansana Contè di Conakry, sul tema “Culture della migrazione, immaginari migratori e buon governo della mobilità”.
Insieme ad autorità istituzionali dei due paesi, tra cui il ministro dell’insegnamento superiore e della ricerca scientifica della Guinea Abdoulaye Yero Balde, con i rappresentanti di governi e organizzazioni internazionali, la tematica verrà trattata da esponenti della ricerca applicata universitaria cercando di fissare un punto di equilibrio e di convergenza tra l’ottica di paesi (come il nostro) che ora importano migrazioni e paesi (come la Guinea e in generale tutta l’Africa, quella occidentale e non solo quella nel continente africano) che esportano da alcuni anni migrazioni.
Noi con la memoria di un secolo di emigrazione italiana nel mondo che dimezzò dal 1880 al 1920 la popolazione italiana allora di quaranta milioni di abitanti. Loro con la memoria più antica della dominante migratoria che, per alcune di quelle terre, è raccontata dalla Bibbia e la memoria anche della storia coloniale in cui la migrazione non è stata certamente atto di volontà (la Guinea fu ambito cruciale della tratta degli schiavi). Noi discutendo sulle prospettive di assimilazione, di integrazione o di respingimento che nutrono il dibattito pubblico europeo; loro indotti anche a riflettere (lo farà Abdoulaye Wotem Somparé, professore alla Université Julius Nyerere di Kankan) sulla “migrazione come aspirazione alla mobilità sociale”, che comprende anche progetti di ritorno.
E’ possibile la competitività solidale?
Oggi, nel pieno di processi globali che ci rendono eredi ormai di storie comuni e tuttavia anche gestori di un destino ben diverso in materia di sviluppo, mobilità e sostenibilità, tutto è diventato interdipendente e l’idea di affrontare un processo che i demografi danno in ascesa verticale per tutto il secolo in corso con fenomeni oggi faticosamente immaginabili (ma a breve sempre più reali) senza mettere in comune punti di vista e responsabilità ancora poco interdipendenti vuol dire consegnare largamente le decisioni – anche quelle che aiutano nel breve ad acchiappare voti o a speculare consenso sulle paure – alla nefasta combinazione dello stereotipo e del pregiudizio.
Due categorie che la sociologia tratta come remora micidiale per affrontare le sfide della modernità e della competititività solidale. Dal momento che la competitività è soprattutto guerra di interessi e, se non trova vie ovvero regole solidali, conosce soltanto le piste distruttive della violenza.
Vi è coscienza, ad esempio, che per gli stati che sono fonte di emigrazione, questa gigantesca mobilità è da tempo anche un fattore di equilibrio dei bilanci pubblici nazionali, grazie alle rimesse dei migranti che – come lo fu per l’Italia nel corso di decenni – corrispondono ad una età delle migrazioni e quindi alla relazione ancora viva tra emigrati e famiglie di origine. Ma, proprio perché il fenomeno agisce su leve pubbliche quasi irrinunciabili, ciò apre le porte a spazi di dialogo fondato su opportunità regolatorie che fin qui solo la Germania sembra prendere in considerazione realistica e al tempo stesso con carattere programmatorio. Dunque al servizio delle proprie convenienze, all’interno di una visione più regolata possibile di uno sviluppo caratterizzato da impeto che può determinare anche catastrofi. Anzi che molto probabilmente produrrà catastrofi.
Nuove proiezioni demografiche e sui processi di inurbamento
Le recenti proiezioni alla metà e alla fine del secolo in corso dei processi di crescita delle popolazioni e di mobilità interne e internazionali (ne hanno parlato i media nel mondo e in Italia, ad esempio, Repubblica ne ha fatto un interessante dossier[1]) hanno tabelle che vanno al di là dell’immaginazione.
L’Africa – da qui al 2050, quindi con una prevedibilità “a vista” – decuplica la crescita demografica, l’Asia la sviluppa di quattro volte, mentre l’Europa mantiene linea piatta. Il processo di inurbamento seguirà soprattutto in Africa e Asia curve d’impeto, e comunque proseguirà in tutto il pianeta, dove è in atto da tempo. Così che mentre oggi sono Tokyo, Messico, Mumbai le città più grandi del mondo, a fine secolo saranno Lagos, che raggiungerà la cifra-spavento di 88,3 milioni di abitanti, seguita da Kinshasa (83,5) e Dar es Salaam (73,7).
Nel mondo o verranno messi in atto interventi strutturali per governare questa rivoluzionaria mobilità o, nel mondo, si morirà nella guerra per un bicchier d’acqua, coinvolgendo tutto e tutti.
Le leve culturali ed educative contano come quelle della sicurezza
Da qui gli sforzi di un dialogo costruito sul tentativo di guardare e salvaguardare le storie identitarie che – ricchi e poveri, stabilizzati e migranti – tutti ci portiamo dietro. E costruito soprattutto sulle leve culturali ed educative, insieme a quelle di una rigenerazione della responsabilità delle classi dirigenti e della pressione degli ambiti di diagnosi e di progettazione delle policies su altri ambiti che nel 2018 sembrano privilegiare la clava rispetto all’intelligenza.
Questo approccio non è irresponsabile rispetto ai problemi di sicurezza che il processo migratorio coinvolge dappertutto, sia ben chiaro. Ma vuole contribuire a rendere più complessa e quindi più realistica l’attuale gestione sicurista di ogni compente di quel processo, mettendo in orizzontale le leve della ragione e della conoscenza che da tempo immemorabile hanno riportato avanti ciò che la demenza distruttiva dell’uomo ha riportato indietro.
In questa rubrica avevo trattato da vicino la questione nel 2016 in occasione di missioni di indagine e di dialogo a cui ho partecipato (in progetti europei) nei contesti di Turchia, Siria e Grecia [2].
Il mio contributo – anche questa volta in Guinea – riguarda la centralità dei processi di rappresentazione e di relazione, dunque le questioni comunicative e mediatiche che potrebbero far parte di una visione della “comunicazione pubblica” aggiornata alle crisi e alle emergenze del terzo millennio, con l’obiettivo di fare evolvere in senso post-emergenziale problemi ancora governabili, prima che gli irrisolti assumano follemente il governo del mondo.
Al termine di questa missione scriverò qui un articolo di sintesi su ciò che è emerso a Conakry, città – come dicono le guide – “dal fascino non immediatamente percepibile”. Che, ad occhio, sembra un’efficace metafora del contesto generale e dei problemi che fanno da cornice anche ai processi migratori.
[1] Scenari – Megalopolis – Città da 100 milioni di abitanti, a cura di Giuliano Aluffi, Repubblica 18 aprile 2018,
[2] Articoli recuperabili qui in rete e comunque pubblicati nel capitolo sulle Migrazioni in S. Rolando, Né per lucro né per inganno – La comunicazione che servirebbe ai cittadini per arginare l’epoca della post-verità (LUMI, 2017) distribuito anche on line.