Ci sono serie che a guardarle resti affascinato per l’opulenza di sfumature narrative e altre, di ambizioni più modeste – vuoi perché prigioniere di un formato tradizionale come la sit-com, vuoi perché incistate nell’offerta generalista di un grande network – che strappano appena un sorrisino. Il sorrisino sboccia proprio con “Atypical”, la serie tv da poco debuttata con la seconda stagione, che non è né ingabbiata nella comedy vecchio stampo né arriva da una rete pubblica che carezza tutti senza soddisfare nessuno (è su Netflix).
“Atypical” racconta i continui processi di adattamento di una famiglia attorno alle esigenze mutevoli e cangianti del figlio piccolo affetto da autismo. Il nerbo narrativo è dunque encomiabile, ma è tutto così pulito e immacolato da scatenare dubbi circa la capacità autoriale di maneggiare un genere, quello della commedia, mai così duttile come oggi. Oggi che il regno della risata si impregna di dark unendo pianto e sorriso, stanando piccoli scorci di realismo a zonzo per l’America (è quello che fanno “Girls”, “Atlanta”, “Love”), “Atypical” rimane attraccata a un plastico lindore formale. I tre personaggi attorno al protagonista – madre, padre, sorella – hanno un bel carico di conflitti interiori – chi affronta la scuola nuova, chi il mostro della solitudine – ma queste piccole lotte mettono il vestito del silenzio pacificante per non increspare i tormenti del protagonista autistico. Se rabbia e nervosismo debordano, se li portano via gli abbracci e le succinte chiose di chiarimento, senza lasciti e rigurgiti.
Un minimo di speranza sembra germogliare con la linea orizzontale di questa season 2: il rapporto da rabberciare fra mamma e papà dopo il tradimento di lei. Ma il gioco degli sguardi che si riaprono alla serenità e i contatti fisici che si prolungano oltre la soglia del ritrovato sentimento già fanno capire che l’approdo della stagione sarà un ricongiungimento, nel pieno rispetto di questa pacatezza di struttura e toni che non vuole turbare niente e nessuno.
Spiace perché si poteva fare di più. Il manualetto sull’autismo poteva diventare vessillo di un tragico eroismo che scavalcasse confini sociali e psicologici per rendere chiaro a tutti, con la chiave della complessità e dello sfumato che accoppia bianco e nero in un grigio sincero e veritiero – come riesce alla serialità d’oggi –, il buono e il brutto di una condizione che si porta dietro ancora un granitico strascico di pregiudizi e ignoranza. Avrebbe potuto essere un “Rain Man” formato famiglia che collocasse tutti i personaggi su equilibri traballanti senza riparare in trovate zuccherose sempre e comunque, senza il gusto del preconfezionato e il sapore rancido delle emozioni un tanto al chilo. Poteva essere un amalgama più vissuto di punti di vista. Un concentrato di colori e tribolazioni vere. Di chi lo vive, l’autismo, e di chi gli sta attorno, con amore. È venuto un prodotto tradizionale e commerciale quando invece poteva essere atipico.